la stanza dei cinici

Venghino signori, venghino, ecco il ladro di comunicazione!

CHARLIE'S SUGGESTION

È ufficiale, è finita un’era. La lunga reggenza della “famiglia dal bian biscotto” che ha contagiato il sistema consumi per decenni è svanita sotto gli effetti della prolungata crisi di mercato.

Insomma, per usare le parole del più autorevole Giovanni Siri, direttore scientifico dell’Istituto GPF reaserch di Milano, abbiamo vissuto “un brusco risveglio dall’eccitante e narcisistica seduzione dell’età post-moderna che ci aveva allevati nella convinzione del ‘IO VALGO’, che la felicità è a portata di carta di credito e che siamo nel paese incantato del perenne natale consumistico”.

Un’utopia sparita a schiaffi di realtà che ha ingoiato recentemente, senza se e senza ma, anche l’inossidabile e invidiabile famiglia brangelina, dimostrandoci che la quotidianità è semplicemente più complessa degli idilliaci modelli d’innocenza esistenziale proclamati in pubblicità che ci dipingevano felici, vincenti e contenti nell’inzuppare il biscotto nel latte della vanità.

Già perché il copione del “bello e perfetto grazie a me”, spazzato via dall’incursione della quotidianità nel quadro della fantasticheria, non ha avuto un lieto fine, proprio come il romanzo di Philip Roth, “American Pastoral”. Una famiglia, quella del protagonista, tanto perfetta nelle apparenze da non cogliere le interferenze della realtà e la cui assurdità della storia sta nel fatto che nessuno avrebbe potuto accettare che quel modello di bellezza e di successo si rivelasse un falso d’autore. Il film ovviamente finisce senza happy end, ma la vita va avanti, inclusa la nostra, senza più veli, senza più orpelli e con delle sfumature molto più intense di quelle in cui ci eravamo assopiti. In un tempo troppo breve, ci siamo dovuti accorgere che la quotidianità è molto diversa dal suo fittizio, da quel falso d’autore per l’appunto, da cui ci siamo lasciati adulare. E in conseguenza i guru della comunicazione, e con loro molte aziende, sono dovuti correre ai ripari, buttando velocemente le rappresentazioni bucoliche nel water dello storytelling.

Così bye-bye alla Milano da bere che ha smesso di bere.

Siamo quindi arrivati a quel famoso e burrascoso risveglio di cui sopra, di fronte al quale la branding communication, dopo anni di gloriosa celebrazione, subisce la sua prima e inesorabile battuta d’arresto. Si apre la fase della deregulation comunicativa che, scomodando la poetica del visionario Dante, il quale ci auguriamo non si rigiri nella tomba per l’irriverenza della metafora successiva, assume i tratti della rappresentazione della Divina Commedia.

L’inferno inizia a esser popolato da brand lussuriosi che, convinti della propria forza di status symbol, cambiano il messaggio ma non la sua intenzione. Sono gli irriducibili che persistono in trend comunicativi fondati sulla seduzione attraverso iconografie che, seppur coerenti e credibili con l’evoluzione del brand, risultano distanti da quanto sta avvenendo nel contesto. Sostenitori di rappresentazioni sfavillanti e inverosimili in cui il sogno è duro a morire, rispolverano dall’armadio il sorriso smagliante di Jane Fonda che prende le forme, però, di più giovani e ammalianti testimonial cui viene cambiato lo storico claim del “Perché io valgo”, convincente ai tempi in cui era il contesto che convinceva, con più speranzosi, ma meno penetranti, slogan che inducono ad esaltare la bellezza della vita con entusiasti “SI”. Del resto “la vita è bella” e se sono loro a dirlo, icone di perfezione con conti in banca da capogiro, uno stuolo di baby-sitter al seguito e personal trainer che personalizzano ogni fase della giornata, come non crederci? È solo che la vita bella di una persona ordinaria ha parametri molto differenti.

Procedendo, tuttavia, nel nostro viaggio dantesco, passiamo ora per il purgatorio. Qui invece si annidano quelle aziende che attendono la remissione dei propri peccati, cullandosi nell’ambivalenza del “vorrei esser santo ma non so come fare”. C’è chi continua a puntare sullo stupefacente “purché se ne parli”, senza che la rappresentazione, e con essa il suo messaggio, abbia alcuna attinenza con il brand, rischiando nel prossimo futuro l’oblio dietro la più ingombrante iconografia. Tra tutti spicca l’amabile gallina che, poverina, continua annoiata ad annuire al suo popolare interlocutore. Oppure, che dire di chi, sdraiandosi su una comoda poltrona, indugia nella strada della confortante promozione a lunga scadenza, la cui interminabile durata pone plausibili dubbi sulla validità dei prezzi di prima e sull’efficacia di quelli di ora? Insomma se nell’inferno ci si continua a far scaldare dalle fiamme della seduzione, nel purgatorio si rimpiange ‘un prima’ che tarda ad arrivare e si spera in ‘un dopo’ che nessuno sa delineare.

Forse perché una crisi è prima di tutto negli effetti che non nei fatti.

E, mentre tutto ciò avviene, Virgilio lascia il passo alla più celestiale Beatrice, che, vestita a festa d’innovazione, ci spalanca finalmente le porte del paradiso. È qui che qualcosa avviene. Alcuni brand, dopo essersi immersi nel Lete del cambiamento e nell’Eunoè della responsabilità, comprendono che, se si vuole fare la differenza, è necessario sviluppare un pensiero indipendente. Forti di un passato di incompresi dissidenti, si affacciano con entusiasmo alla grande opportunità che, come dice Seneca, “incontra il talento”. Brand talentuosi, perché innovatori, che interpretano un’epoca prima ancora che essa si realizzi compiutamente. Così, tra esperimenti paradossali che fanno il verso alla sovraesposizione dei brand ed evocazioni cinestetiche da far invidia a Milton Erickson, padre del linguaggio suggestivo, avanza pure la bellezza imperfetta di RealBeauty che suona come il proclama di una nuova coscienza.

Imperfezione? Sembra quasi un’eresia.

Eppure non lo è, perché aziende come questa intraprendono con coraggio strade in controtendenza, senza la presunzione di generare tendenza, guidati dalla sola audacia di non avere regole da seguire, ma con il desiderio di ricostruire una relazione con l’individuo che abbia come premessa la relazione medesima, e quindi la costruzione di uno scambio e la partecipazione a valori comuni. La realtà abbandona il fittizio e diviene rappresentazione di se stessa. In alcuni casi permangono i testimonial che penetrano nell’iconografia in punta di piedi, diventando autorevoli propulsori di nuovi valori senza l’arroganza di volerne essere imitatori. In altri si delineano nuove figure, gli ambasciatori, interpreti accessibili, con i quali attivare uno scambio riflessivo e aggregativo. Le aziende co-costruiscono rappresentazioni valoriali credibili e coerenti con la promessa del brand e in sintonia con il sentire del contesto, più che con il compiacerlo, sperimentando linguaggi e nuove modalità di veicolarle. In ultima analisi, il paradiso si popola di brand leader e innovativi, che si assumono la responsabilità di essere benchmark perché in celestiale accordo con la propria promessa e il contesto in cui si agisce. La branding communication sembra evolvere verso nuovi paradigmi, sempre più personali e adattivi che delineano un’indipendenza di pensiero, relazione e azione oltre le ormai obsolete targhettizzazioni e stereotipizzazioni di mercato. Si comprende che, se l’individuo è unico, è necessario saper recuperare la propria unicità di brand per poter instaurare un dialogo personale. Fin qui sembra di assistere a una rinascita della comunicazione, perché irregolare, puntiforme, esplorativa, sperimentale. Per utilizzare l’inusuale claim di un acquifero brand, migliorarsi ogni giorno è una questione di scelte e c’è chi sceglie di migliorarsi costruendo nuove visioni.

Credits photo: Evan Kirby // Unsplash

Ma, ed è il ma che attira la nostra attenzione riflessiva, essere costruttori di nuove visioni non vuol dire essere imitatori di visioni altrui. Infatti, sebbene San Pietro, sorseggiando un buon caffè, ammonisca i guru della comunicazione sul fatto che “certe cose non si possono imitare”, gli stessi segugi a caccia di rinnovazione più che di innovazione, assillati dalla perenne domanda “come si fa a posizionare il brand nella mente del cliente?”, si sfregano le mani di fronte alla nuova via da copiare. Si sa, l’imitazione è dura a morire e con essa il trendismo che ne consegue. A un tratto tutto cambia e tutti cambiano dietro ciò che sta cambiando. Cambia anche il film, perché entra in scena il pifferaio magico che comincia a riscrivere il copione facendo svanire l’intento divino dietro all’irresponsabile comicità della sua azione. Mentre San Pietro si lascia distrarre dalle angeliche voci che sibilano all’unisono “yessa”, il bizzarro personaggio gli ruba le chiavi del paradiso e, infiocchettato da santone della comunicazione, che si vanta di essere il primo a mettere in campo la soluzione dal retrogusto di trend, sale sul pulpito della salvificazione, emettendo dal suo flauto le magiche parole “ecco la via da imitare!” E non pago di aver dato un aiutino a chi risiede in purgatorio, comincia a dispensare indulgenze pure ai luciferi seduttori che, promettendo di aderire al nuovo proclama della branding communication, volano diretti in paradiso. Esperti in comunicazione e con loro alcune aziende di importanti brand, privi di idee i primi e di coraggio i secondi, iniziano a esercitare la comoda arte della pirateria, camuffandosi indisturbati da cloni dei cherubini clonati. I mestieranti dello storytelling fanno proliferare follower di best practice di successo, nella speranza che ciò che ha funzionato per altri, con una botta di fortuna, funzioni pure per loro. Ai pochi irriducibili infernali che, tappandosi le orecchie, insistono e persistono con i giurassici testimonial di verità poco veritiere, si affiancano emergenti imitatori di approcci già divenuti di moda che, seguendo le orme dei televisivi “People Show”, più chic dei demodé reality o talent, prendono le sembianze della ‘comunicazione dal volto umano’.

L’isteria che consegue alla ritoccata via è ormai a portata di zapping.

Il prodotto prende il nome di persone dato che “ogni persona è unica” o piuttosto il prodotto racconta la nostra autenticità e impone il “Rimani te stesso, sempre”, dando uno schiaffo all’evoluzione. Ma c’è pure chi proclama le “molteplici personalità”, allertando pool di psichiatri pronti a scendere in campo per sanare il nuovo virus. Nei messaggi si assiste a una clonazione dissennata attraverso la ridondanza ipnotica di parole che vanno “da autentico ad unico ed unicità, a personale e personalità”. Non meno avviene nella loro rappresentazione, perché gli ambassador, diventati ormai dei trend-setter di unicità più che costruttori di visioni uniche, danno un calcio nel di dietro ai testimonial, trasformandosi in grottesche riproduzioni di valori copia-incolla, al punto che gli stessi interpreti vengono scambiati indistintamente come le figurine Panini. La medesima umanità organizzativa diviene simulacro di una presunta realtà aziendale che, con il nome del maestro Bruno e similari, scansano dallo schermo tv i personaggi più nazional popolari.

Insomma i figuranti diventano protagonisti o più semplicemente i protagonisti sono sempre figuranti.

Abbiamo varcato il confine dell’attuale epopea, quella per l’appunto, del “futuro dal volto umano” che viene accolta dai più con l’entusiasmo di una nuova fase umanistica, ma che per noi, sconsiderati comunicatori, non vedendo in essa alcuna premessa della magnificenza rinascimentale, puzza più dell’ennesima decadenza comunicativa infiocchettata di buonismo. E proprio sulla spinta di un’etica universale, che parrebbe nascondere una morale personale, il ladro di comunicazione mette a segno, almeno in apparenza, il suo colpo magistrale.

Esperti, espertologi e guru si ritrovano in gran segreto per normare quanto aveva perso di senso normativo. La storia della branding communication viene questa volta riscritta al cospetto dei templari della comunicazione che, proprio come i loro antenati, desiderosi di dare regole da seguire, si confrontano per creare un ordine nuovo. Qualcuno apre il confronto dichiarando “bisogna mettere al centro il consumatore!” Affermazione da cui ne consegue il plausibile dubbio se lo stesso, in tutti questi anni, fosse stato chiuso nel bagno. Ma qualcun altro gli va dietro e ci mette l’aggiuntina “iniziamo a parlare di unicità, le aziende hanno una grande opportunità, amare le persone!” E siccome, ricolmi d’amore, bisogna conoscere chi si ama per essere ricambiati, ecco pronunciarsi l’esperto profiler del nuovo consumatore, che delinea “un soggetto poliedrico che non si fa conquistare dalle icone della moda” ma che allo stesso tempo è “alla ricerca di iconicità, di suggestioni forti e fresche”. C’è allora da chiedersi se l’indicazione del profiler richieda di creare o disdegnare questa iconicità. “Un consum-autore” andando avanti nella profilazione “con una storia chiara, precisa, esclusiva”, chiarezza e precisione che tuttavia poco si coniugano con la contraddittorietà e complessità umana un po’ più variegata. Insomma “in ogni generazione c’è un senso unico” che, aggiungiamo noi, sembra andare proprio a senso unico.

Credits photo: Nicola Jones // Unsplash

Con un po’ di sconforto ci chiediamo, parafrasando il claim di una nota azienda automobilistica, di cui condividiamo la raffinata riflessione, “ma dobbiamo sempre etichettare tutto?” A quanto pare sì, visto che l’irregulation comunicativa, che ci aveva esaltato per la spinta innovativa, lascia il passo all’omologante regolamentazione del modello Personas, perché parlare di target come bersaglio cui vendere non è più dignitoso ora che “la nostra vocazione è proteggere le persone”. Così la branding communication, ai tempi dei templari ordinatori, torna a proliferare di teorie e trend che la disciplinano, con tanto di manifesto e umanità nel titolo. Ci ritroviamo ad essere tutti ispirati, o meglio, imitatori di un’umanità dal sapore di umano che sa troppo di umano e da cui lo stesso Nietzsche ci aveva messi in guardia, perché “i buoni e i buonisti sono più dannosi dei danni, crocifiggono colui che scrive nuovi valori su nuove tavole sacrificando il futuro degli uomini”. In mezzo a tutto questo buonismo e umanità da glicemia alle stelle, magari dovrebbe tornare a tuonare l’irriverenza del “be stupid” di Renzo Rosso, che di valore ne aveva da vendere.

Non vorremmo che la nostra lunga dissertazione venga confusa per accanimento terapeutico verso l’umanità e la sua ben nota unicità, che al contrario è una cosa molto seria e non ha nulla di disdicevole dato che di essa, in tempi non sospetti, giusto per non essere accusati di ipocrisia, ne abbiamo fatto un paradigma di leggerezza. Ma piuttosto ci lascia interdetti la replicabilità di un modello, quello dell’unicità e della sua rappresentazione umana, che diviene l’unica strada da perseguire. Il paradigma della già citata ‘comunicazione dal volto umano’ viene oggi proclamato proprio dai templari come la ‘comunicazione nuova’, con la cui espressione, tuttavia, si fraintende il significato stesso della parola. Perché se per paradigma s’intende esemplare unico, come può esso divenire esempio unico da imitare per la maggior parte dei DNA brand? L’unicità diventa un trend, più che un paradigma personale, e della ritrovata unicità o autenticità che dir si voglia parla anche chi ha una value proposition che si rivolge alla massa e non al singolo, offrendo al mercato messaggi paradossali che da una parte poco hanno a che vedere con la propria identità di brand e dall’altra obbligano l’individuo a ricercare affannosamente qualcosa, l’autenticità, che non si può ordinare, perché spontanea e naturale.

Oscar Wilde replicherebbe prontamente “datemi una maschera e vi dirò la verità”.

E, a proposito di maschere, che dire della dominante rappresentazione degli ambassador che smarrisce, nella sua indiscriminata azione di rappresentare qualcun altro, il suo significato originale di vivere i valori che esprime in ciò che fa? Ci risiamo, il problema, adesso come allora, è sempre lo stesso: il gioco della mancata identità che, tanto per citare, è un po’ quello che succede, negli effetti, quando una nota azienda ti racconta che “la tua storia è unica come il tuo…” intimo, e ascrive tale differenza alla combinazione di soli 18 modelli del prodotto in questione, che dovrebbero essere narrazione delle singolarità dell’intero universo femminile. Insomma i conti sembrano non quadrare e, ancor più, a non tornare sembra proprio la morale. Già perché come recitava Fred Buscaglione, con il suo cilindro a trentatré “moralista mi sa dire qual è la morale?”.

Ma forse non c’è morale Fred, o forse ce n’è troppa, caro Fred.

La morale è quella di alcuni esperti di comunicazione che, desiderosi di riportare in carreggiata i brand, costringono le identità aziendali entro i confini di tecnicismi, metodi e veicoli calati dall’alto, confondendo l’obiettivo con le regole di funzionamento del contesto comunicativo. E dall’altra c’è anche un eccesso di incosciente moralismo, sollecitato dal comprensibile entusiasmo della ritrovata via, di quelle aziende che, per scrollarsi di dosso il conturbante paradosso della valorizzazione svalutante del “tu vali con il mio brand addosso”, si lasciano ammaliare dal buonismo dell’unicità delegando altrove la propria identità. Ecco delinearsi un paradosso ben più grande della omologante omologazione della precedente era, vale a dire il pensiero unico, secondo il quale la maggior parte dei brand diventano indistintamente, sia nel messaggio che nell’iconografia, complici di un’unicità che differenzia omologando. Del resto lo cantava anche Giorgio Gaber, “quando è moda è moda, e non c’è nessuna differenza.

Credits photo: Neonbrand // Unsplash

Ma d’altro canto, c’è anche la possibilità che morale non ci sia, caro Fred, perché come ripetevi “la morale è una frottola” e si sa “quando ci pieghiamo alla morale tutto è lecito”. Ed è proprio su quest’ultima affermazione, che potrebbero fare la loro comparsa in scena gli Assassin’s Creed che, grazie al credo del libero arbitrio, combattono l’ordine nuovo dei templari, sostenendo una visione dell’opera comunicativa in quanto atto unico e irripetibile.

Che sciocca utopia Fred, alla fine lo sappiamo che dietro a tutta questa morale, c’è sempre la solita morale: “It’s the economy, stupid!

Dai non ci mettiamo a fare i no-global con le scarpe firmate ai piedi proprio ora, che l’economia è una cosa seria, riguarda l’umanità. Perché se di vendere si tratta, che sia a un semplice consumatore o all’antiquato target, piuttosto che alle evolute personas o addirittura al raffinato consum-autore, dovremmo pure interrogarci sugli effetti paradossali dell’unicità. Infatti ci sono giusto un paio di domande che, dall’inizio, mi ronzano in testa. Qual è il vantaggio per un brand di essere percepito come l’ennesimo cherubino indifferenziato, se non quello di produrre confusione nei mercati e annientare l’innovazione? E dall’altra, qual è il beneficio per un operatore della comunicazione, che si chiama pure creativo e quindi creatore, di intrattenersi con Claudio Cecchetto al gioca jouer dello storytelling che non costruisce senso alcuno?

Una dimostrazione di senso? Quella del Jack Rusell in pubblicità come fosse una costante. Ma la realtà ha una moltitudine di altre razze canine, ad eccezione della sottoscritta che, guarda caso, ha proprio scelto quella che ormai è un trend. Me ne farò una ragione, non posso certo barattare un pezzo della mia identità solo perché è diventata di moda, così come i brand non possono rinnegare il proprio paradigma dell’unicità perché qualcuno glielo copia malamente.

Tuttavia, parafrasando l’architetto e designer Fabio Novembre, esso può sempre evolvere, visto che “c’è una sola tendenza da seguire, quella di migliorarsi”. E per migliorarci dovremmo iniziare a non confondere lo storytelling e le sue tecniche di narrazione con l’obiettivo, che invece è quello di sostenere i brand nella scelta del proprio percorso di proposizione sul mercato. Perché basterebbe per un attimo spostare l’attenzione sull’adeguatezza dell’azione comunicativa trasudante di sconsiderata umanità, per renderci conto che gli effetti di questo piacere e compiacere porteranno pure risultati nell’immediato, ma con poca probabilità contribuiranno a creare sostenibilità di mercato. Proprio come ci fa riflettere il sociologo Francesco Alberoni, dall’alto della sua autorevolezza, quando scrive “se ti confronti con gli altri, finirai per compiacerli e se cerchi di fare quello che piace al pubblico, ti allontani dalla tua vocazione e ne perdi l’originalità e la purezza.

E se è vero che il mercato non va compiaciuto con vacui camuffamenti, è altresì vero che va osservato e ascoltato nella sua disfunzione. Proprio quel mercato, tanto vale dirlo, un po’ acciaccato dai numeri, che negli ultimi 10 anni ha registrato un’inflessione pari al 12% nella capacità di spesa delle famiglie. E allora come fanno le imprese a navigare nel mercato se si lasciano sedurre dal trend che seduce all’acquisto che non c’è?

Credits photo: Jean Pierre Brungs // Unsplash

Lo so Fred, ho usato la parola sedurre e non avrei dovuto, ma il punto è proprio questo, perché il mercato per essere ricostruito, a partire dal suo senso e dai suoi valori, ha bisogno di responsabilità, che spesso si confonde con la previsione di ciò che si suppone il consumatore voglia. Quella stessa responsabilità di cui parla Roberto Verganti, docente del Politecnico di Milano, quando si riferisce ai progettisti e ai manager, che dovrebbero comportarsi come “un buon padre di famiglia, il quale non si limita a dare ad un bambino ciò che gli chiede”, e aggiungiamo noi, lo aiuta a costruire la sua via.

E da buoni padri di famiglia potremmo iniziare ripartendo proprio dai presupposti del Rinascimento che, tuttavia non corrispondono con il compiacere l’umanità, ma con la capacità di essere costruttori attivi del proprio e altrui valore. Con l’intento di riscrivere, quindi, il finale di questa storia, scomodiamo anche Lorenzo il Magnifico nella sua veste di mecenate che, dopo aver dato una tirata d’orecchie ai conformisti e pure ai moralisti del proclama dell’umanità e aver istruito coloro che confondevano la sua magnificenza con operazioni di beneficienza pulisci-coscienza o con le più attuali sponsorizzazioni senza virtù, ci ragguaglia su una nuova visione “usare il proprio valore per costruire nuove realtà”.

“Adesso anche il mecenate dei mecenati si mette a fare la morale?” Penserai Fred.

Non credo che lui stia parlando di morale e neanche di etica, che è una cosa assai diversa, ma piuttosto di ecologia. Perché se il mercato, nonostante quest’arieggiata di umanità, non funziona, forse le aziende dovrebbero lasciarsi ispirare, che non coincide con imitare, da chi sa lasciare un segno di sé. Non solo dal Magnifico, per intenderci, ma anche da più recenti imprenditori visionari, come Brunello Cucinelli, il quale del valore umano ha fatto un pilastro del suo successo economico, dichiarando che “il secondo è nullo se privo del primo.” Tuttavia ciò che era, incluso il mecenatismo, va adattato alla realtà in cui agisce e, quindi, ai vecchi modelli di filantropia servirà una spinta evolutiva che vada oltre l’investimento delle aziende in cultura e bellezza e traghetti le stesse con i loro brand verso la preservazione del patrimonio del nostro Paese, investendo strategicamente nel proprio investimento: il sistema socio-economico.

E agli abili comunicatori non rimarrà che l’umile mestiere di essere progettisti di valore, anziché urlatori di idee buone.

Perché se l’umanità è una cosa seria, così come l’economia che è al suo servizio, lo è anche la comunicazione, che non è un fine, ma un punto di accesso per intervenire in qualsiasi sistema e orientarlo con efficacia ed efficienza verso la prosperità che gli è propria. Forse, come fa notare il giornalista e scrittore Luca De Biase, solo “chi supera lo storytelling ricomincia a scrivere la storia” perché “Chi crede di vivere nel mondo creato dallo storytelling fa un errore. Chi studia la storia si pone al servizio della comprensione umana.

E chi dello storytelling proprio non può fare a meno potrà sempre imparare a usarlo per raccontare ‘modelli di bene’ che facciano bene al nostro mercato. Chissà che lo storytelling, distinguendo l’intento dall’effetto, diventi concretamente ciò che oggi viene esibito nel manifesto for#uman communication, ovvero “un’attività di sense making necessaria alla costruzione di una destinazione valoriale da condividere autonomamente con un pubblico.” E magari le destinazioni valoriali si amplificheranno diventando dei viaggi più che dei porti.

Del resto anche questa è una storia che usa l’artificio dello storytelling e, come si conviene a una storia di fantasia, concludiamo dicendo che:

“ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.”