Pulpa l’avvoltoio della mala informazione

Questa non è una storia d’immaginazione, una di quelle storie catastrofiche che si penserebbe partorita da un’illuminata mente hollywoordiana alla Spielberg per sbancare i botteghini dei cinema di tutto il mondo. No, questa non è finzione, ma realtà.


E’ il 30 ottobre 2016, quando, come molti italiani in quel momento, ma non tutti purtroppo, cerco di carburare alle prime luci del mattino. E così, ancor prima di aver spazzato via il sapore della notte con un buon caffè, il mio cellulare inizia a parlare sotto forma di whatsapp. Un susseguirsi di messaggi ininterrotti. Guardo ed è il mio gruppo “cena di classe”, un gruppo creato da alcuni miei compagni del Liceo rimasti nelle Marche. Non vedo alcuni di loro addirittura da vent’anni, ma esserci è forse un modo per dirmi che nulla è cambiato in quel paese, Tolentino, che ci ha visto bambini, poi adolescenti e infine adulti che se ne andavano o che rimanevano. Quei messaggi, quella mattina, hanno un sapore diverso, come un suono ovattato.
E’ un continuo, uno dopo l’altro: “Ragazzi, tutto ok? Noi siamo a Montecarotto”, “Io si. Voi?”, “Tutto ok, si si!!!”,“Si, restiamo”, “Casa mia crolla ragazzi, siamo tutti fuori”, “Mamma mia, come facciamo. Noi pure!”, “Mamma mia”, “Sono sconvolta”, “Respira profondamente, cerca di razionalizzare anche se è difficilissimo”.
E ancora, ancora. Vanno avanti a messaggiarsi.
Guardo il mio compagno e dico “c’è stata un’altra scossa! Continuano a scriversi.”
Cerchiamo su internet qualche notizia che smentisca il sospetto. Guadiamo più agenzie di stampa ma ancora niente.
Prendo il cellulare e chiamo mia zia che vive a San Ginesio, una bomboniera montana di neanche 4.000 anime.
Uno squillo e al secondo risponde ansimando “oh, Dio. Oh Dio!” e poi urlando “trema tutto, trema tutto. Le foglie del lampadario sono venute giù!” Ripete di quelle foglie come se fossero il centro della sua attenzione. Ancora niente, nessuna notizia del sisma mentre mia zia continua a parlare come se la terra stesse ancora tremando, ma forse è il rimbombo nelle sue orecchie o forse è il suo cuore a tremare dalla paura. Poi è lei a darmi la notizia farfugliando parole “è arrivato fino a Roma…l’epicentro è tra Norcia e Visso. Qui vicino. E’ di 7.1…”
“E’ di 7.1!” Le fa eco Alessandro che è seduto vicino a me mentre legge le prime news sul cellulare.
Lo guardo incredula e chiudo la conversazione con mia zia che è ancora sotto shock ma al sicuro, fuori dalle sue mura che un tempo la proteggevano.
Mentre lui continua a cercare su internet qualche notizia che dia la misura dell’impatto del sisma, arriva la smentita.
L’USGS (United States Geological Survey) rende pubblico in via preliminare che la magnitudo dello sciame sismico è di 6.6. Poco più tardi l’intensità sarà attestata a 6.5.

Dovrebbe consolare, ma in verità è poco consolatorio, perché al di là che si riduca la portata del terremoto e che le news non diano morti, il nostro Centro Italia è mutato per sempre. Ora lo attraversa uno squarcio.

E questo non conforta, al contrario, rattrista. Ma in alcuni casi addirittura esalta.
E già perché in mezzo alle notizie dei TG che titolano a gran voce “il monte Vettore trema e si spacca”, avanzano anche loro, gli avvoltoi mediatici che svolazzano in attesa che si palesi la carcassa della “smentita”, pronti a piombarcisi addosso invocando la falsa comunicazione.
Così anche quel 30 ottobre, si aprono le danze alla corruzione mediatica.
La prima speculazione informativa, mentre ricordiamo che migliaia di persone nel Centro Italia ancora dovevano rendersi conto di quello che sarebbe stato da lì a breve il loro drammatico prossimo destino, arriva per mezzo facebook sotto forma di post della politica Blundo del M5S che farnetica sul complotto della magnitudo rivista. Del resto a pensare male si fa sempre bene. E’ lecito dichiarare che di fronte ad un cataclisma naturale secondo solo a quello dell’Irpinia del 1980, si abbia il tempo di complottare per non risarcire i danni? Soprattutto perché, se quella legge fosse vera, nonostante più volte sia stata smentita, fisserebbe proprio a 6.1 il limite sotto il quale i danni sono a carico degli enti locali. Quindi, se la matematica non è un’opinione, il 7.1 inizialmente dichiarato non è stato di certo abbassato a 6.5 per motivi economici. Che dire? Probabilmente la mia ignoranza in materia di legge non mi consente di affrontare il problema con preparazione. E, infatti, il problema dal mio punto di vista è anche un altro. Forse per puro piacere di opposizione, la senatrice non riesce proprio a tenere a freno il dito digitale. Così Blundo, dopo una tiepida ritirata a causa di un linciaggio mediatico e dopo aver mascherato il suo desiderio di intorpidire le acque dell’informazione dietro una poco convincente giustificazione di “parole dettate dall’emotività”, non sapendo che l’allarmismo non fa bene agli animi di chi è già terrorizzato, torna all’attacco. L’improvvisata esperta di sismologia si accanisce questa volta proprio contro INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia), che esperto è realmente o almeno riconosciuto tale, il quale cerca, nuovamente, di spiegare il motivo per cui la magnitudo può essere modificata nelle prime ore del terremoto. Ma niente, lei che addirittura rivanga il passato dichiarando che sa “per certo” la reale magnitudo del terremoto dell’Aquila, infierisce in un post affermando “Se vogliamo continuare a credere alla favolette crediamoci…”
D’accordissimo con la senatrice, la cui favoletta recita però così “una mattina un bambino si sveglia e s’illude che quello sarà un giorno come tanti altri, magari qualche scossa accompagnerà la sua giornata, ma ormai ci è abituato da più di due mesi. Così, mentre si prepara a godersi il preludio della festa di Halloween, la terra inizia a tremare più violenta, più feroce di prima. Si stringe alla mamma chiedendo cosa succede. Dice che ha paura e la madre non sa sedare la sua angoscia, perché è terrorizzata per la vita della sua creatura. E in un attimo quel bambino si trova fuori dalla sua casa che non è più un rifugio sicuro. Senza giocattoli, senza dolcetti, al freddo, forse su un pullman che solo Dio sa per quanto tempo lo terrà lontano dalla sua stanza dei giochi che ora non c’è più. Quel bambino guarda le macerie sparse a terra, mentre la vita lo allontana dal suo paese.” Per questo piccolo protagonista e per tutte le altre migliaia di sfollati, quanto importa, a poche ore dalla tragedia, se la magnitudo di quel mostro che ha fatto tremare la terra per oltre due minuti è di 7.1 o 6.5 o 6.1? Non cambierebbe il risultato delle ferite riportate nei loro cuori.

Chiarimoci, non si sta avallando un eventuale insabbiamento informativo. Se mai un complotto c’è stato, è doveroso e necessario evidenziarlo. Ma sono i tempi a essere inopportuni.

E infatti, alla dichiarazione della Blundo si iniziano a susseguire commenti che sostengono o denigrano la tesi mettendo in ombra, anche fosse solo per un breve istante, ciò che realmente accade nel teatro del terrore. E’ questo il punto, noi abili pistoleri del Far West digitale scarichiamo pallottole di parole a costo di ferire chi è già ferito. Incapaci di non vantare un posto sul palcoscenico dell’informazione, togliamo spazio a chi quello spazio ha il diritto di averlo, pretendendo di elargire un’opinione piena di banalità “per nome e per conto della verità”, una verità che assume le tinte di un pretesto, neanche tanto celato, di salire alla ribalta per far polemica. E il risultato qual è? Di ingorgare uno spazio devoluto a far informazione, e non improvvisazione, su fatti la cui veridicità può essere verificata solo da chi ha strumenti ed esperienza per farlo, anche attraverso la ritrattazione, se necessario, che fa comunque parte del processo informativo. E, non solo, si ruba tempo a chi legge le notizie creando un caos informativo che in ultima analisi danneggia proprio chi è vittima degli eventi.

Casey Allen

Casey Allen / unsplash

Ma del resto di questa triste storia i protagonisti non siamo noi, comodamente seduti sul divano di casa nostra, osservatori esterrefatti che attraverso schermi televisivi, computer, tablet e smartphone guardano quanto avviene in una terra che fino a ieri era il vanto dell’Italia intera in termini di cultura e artigianato. Un territorio a dimensione umana, che solo lì sembrava resistere. Gli unici veri attori sono quelle persone che in un fremito di terra hanno perso tutto quello che avevano, il loro passato e il loro futuro. Sono loro ad aver il diritto, popolando se necessario i social network o ingorgando di sms l’etere, di piangere e urlare, incazzarsi se mai la rabbia avesse un posto ora in questo sciame di emozioni, financo a sorridere, se mai questo fosse possibile. E invece, la senatrice, con tipico atteggiamento da avvoltoio mediatico, si prende uno spazio che non gli appartiene, giocando a far opposizione anche di fronte ad un’emergenza che richiede un altro tipo di attenzione: il dovere di rimanere in silenzio senza far rumore.

Perché la solidarietà è una cosa molto diversa dalla tanto millantata verità, di cui tutti ci sentiamo in diritto di essere incauti sostenitori a parole e non con fatti.

E quando chi di fatti parla concretamente, come nel caso dell’illuminato imprenditore perugino Cucinelli, che a qualche ora dal terremoto, per amore di una terra, Norcia, dichiara “ricostruiremo insieme il monastero benedettino”, qualcuno replica “ed usare quei soldi per comprare case prefabbricate in legno a basso coefficiente sismico no eh?”
E così dopo esperti sismologi e giornalisti alla ricerca della verità, diventiamo anche brillanti architetti.
Perché lo sciacallo dell’informazione, che è sempre dietro le quinte pronto a salire alla ribalta, fa anche questo, cerca marcio dove marcio non c’è, invece di ammirare e lodare chi, a modo suo, mette mano al portafogli per nutrire un patrimonio che rischia di svanire. E meno male che questo terremoto non ci ha restituito morti dalle macerie, altrimenti qualcuno avrebbe potuto linciare a colpi di hashtag l’imprenditore per comportamento irrispettoso verso chi non c’era più, accusandolo, come già successo durante il tragico terremoto di due mesi fa di Amatrice, di preoccuparsi più del patrimonio culturale, che delle persone che erano state inghiottite dalla terra o che erano rimaste senza casa. Peccato però che quel patrimonio, che non nutre solo l’anima e i sensi, traccia secolare dell’ingegno umano, rappresenta per il Centro Italia uno dei motori dell’economia turistica, grazie alla quale, e non solo per la quale ci mancherebbe, si mangia.

Perché magari non domani, ma tra qualche tempo, ci dovremo domandare, con cosa camperanno le persone che sono rimaste a popolare una terra di fantasmi.

Ma, di questo chi se ne frega basta far opposizione, troneggiando dal proscenio dell’informazione. E quindi ci permettiamo di indignarci per imprenditori come Cucinelli che investono per far prosperare il proprio Paese partecipando alla ricostruzione culturale, ma rimaniamo indifferenti a quelle imprese che, in tempo di calamità, investono in pubblicità nella regressione culturale del sistema, acquistando spazi televisivi che ingrassano le tasche dei tanti reality show. S’intenda, non è che l’entertainment, di basso o alto livello, sia il male da evitare, ma è questione di priorità.
Del resto gli avvoltoi hanno una fervida immaginazione nella loro missione di ricercare la verità. Chissà, magari tra un po’ qualcuno, e spero di non essere una veggente, accuserà l’imprenditore perugino di fare della speculazione di marketing al pari della mal riuscita operazione del ristorante vegano di Brindisi Piovono zucchine. La storia ai più è nota; il ristorante brindisino pubblica un’immagine di una zucchina intagliata con ‘occhi’ impauriti con sopra scritto “Dolcetto o Terremoto”. Il silenzio in questo caso sarebbe stato forse una migliore strategia, ma dopo un susseguirsi di polemiche e indignazione da parte degli utenti, i titolari hanno sperato di salvare la faccia dichiarando, a loro volta indignati dalle reazioni, che si trattava di un’operazione con finalità benefiche rivolte ai bambini delle Marche i quali, con i ricavati della cena di Halloween, avrebbero ricevuto dei dolcetti. Spaventoso, ma non per la maschera di Halloween che questi personaggi brindisini hanno indossato, ma per il lugubre utilizzo dell’ironia che poco ci fa ridere. Un caso passato già lo conosciamo e ci ha visti protagonisti nella vignetta satirica “Terremoto all’italiana: penne al sugo di pomodoro, penne gratinate, lasagne” di Charlie Hebdo, che ha seguito il violento terremoto di Amatrice.

Il punto è, la lasagna con i cadaveri dentro è satira? La zucchina con gli occhi terrorizzati è ironia? Aiuta questo genere di comunicazione a ricostruire?

Qual è l’effetto che si genera, soprattutto in chi è colpito da un dramma come quello del recente terremoto del 30 ottobre? Sorriso? Leggerezza? Voi “satironi” provate a mettervi al posto degli altri e a vedere quale sorriso amaro produrrebbe su di voi. Vi sembrerà di esservi bevuti uno yogurt scaduto. Non entriamo nel merito del fatto che quella sia satira o semplice ironia o ancor peggio cattivo gusto, sappiamo che ognuno è libero di interpretarlo come vuole, ma più semplicemente, come disse il sindaco di Amatrice, “non si dovrebbe mai far satira sui morti”. Questo è un fatto e non insano moralismo. Perché quei morti non potranno replicare così come tutti gli indifesi che non avranno la forza o il tempo di rispondere a quel tipo di comunicazione. Una comunicazione che non crea interazione, non solidifica le relazioni necessarie all’emergenza, ma al contrario crea un’interferenza informativa che disorienta e disgrega, ma che soprattutto ruba l’attenzione.
In tutto questo susseguirsi di post, tweet, mala informazione, in nome della verità travestita da satira, marketing e quant’altro, si perde il senso della ricostruzione.
E la verità, se vogliamo così chiamarla, su quella ricostruzione, mi arriva il giorno dopo il 30 ottobre, quando il susseguirsi dei titoli dei TG (“Castelluccio paese fantasma”; “Norcia spettrale”, “Il terremoto apre una frattura sul colle dell’Infinito”) s’incontrano con le parole di una mia compagna di Liceo del “flagellato Tolentino” che riesco a raggiungere telefonicamente.
“La città non c’è più, non è più quella che era. Il centro storico sta venendo giù ed è tutto zona rossa. In giro non c’è nessuno. La città è deserta, silenziosa, la gente si riversa lungo le coste o nei centri di accoglienza. Prima mi sono fatta forza e sono entrata in casa per prendere qualcosa, ma ho paura, ho paura che venga tutto giù. Io lì dentro non ci metto più piede. Io in quella casa non ci entro più, mai più. Non puoi immaginare cosa sia qua. Le montagne si sono aperte. I nervi sono a pezzi. Siamo tutti terremotati sfollati. Siamo entrati nella storia contro ogni nostro volontà. E’ tutto finito. Finito. Niente sarà più come era!”

tolentino

Marco Meccarelli, di Tolentino

E’ così, non posso immaginare. Ha ragione lei che c’era. E’ inimmaginabile credere che la Basilica di San Nicola sia transennata o che sulla Cattedrale di San Catervo appaiano crepe profonde come crateri. E’ impensabile che il Ponte del Diavolo, simbolo di leggende popolari per tutti, non consenta più l’accesso alla città. E’ inconcepibile immaginare i miei compagni, ormai uomini e donne adulti con figli, che si aggirano come degli zombi per le vie che un tempo gorgogliavano di vita. Impossibile immaginarli vivere come sfollati tra le macerie consumate dalle lacrime. E’ inaccettabile sapere di una ragazza che mentre un palazzo crolla si butta dalla finestra, proprio come dalle Twin Towers dell’11 settembre.

E’ difficile credere che paesi che fino a qualche giorno fa vantavano mura millenarie di protezione ora vedano in esse rovine di disperazione.

E’ impossibile pensare a interi quartieri sequestrati dall’inagibilità. E’ illogico che una terra fino a ieri baciata da Dio ora si sia trasformata in un angolo di angoscia.

Ma, a quanto pare, è proprio Dio che ha voluto tutto questo. A dirlo, qualche giorno dopo la tragedia, è tal padre Cavalcoli, che scomoda proprio quel Dio, sfruttando un mezzo d’informazione notoriamente rivolto ai credenti, Radio Maria, per attribuire a lui il recente terremoto come castigo divino per le unioni civili. Un po’ come dire che il terremoto è stato causato da alcuni test nucleari guidati da Elvis Presley che non è morto e vive alle Hawaii. Follia? No perché il palco mediatico, in tempi di emergenza, si popola anche di chi sfrutta il terrore e le credenze popolari per far sentire in colpa chi colpa non ha. E senza entrare nel merito dell’immagine di un Dio normativo che punisce, poco affine a quella del Dio misericordioso che conforta, mi viene da domandarmi, se in un attimo di pazzia volessi dar credito alle parole di padre Cavalcoli, quale strategia Dio starebbe attuando? Perché Dio dovrebbe andare a punire proprio quella terra vanto per secoli dello Stato Pontificio e simbolo con le sue chiese, ora distrutte o inaccessibili, del più profondo spiritualismo cattolico?

Che strano stratega è questo Dio, che tutto vede e provvede, il quale punisce bambini e anziani per ricordarci il sacro vincolo del matrimonio.

In ultima analisi, quale effetto produrrebbe questa bizzarra strategia divina? Primo fra tutti che la Chiesa intera si è dovuta mobilitare velocemente con comunicati e dichiarazioni per prendere le distanze da una bufala mediatica pari solo all’oscurantismo medievale, mentre gli invisibili continuavano a lottare, in mezzo alle polemiche, per la loro sopravvivenza. Ed ecco quindi l’effetto che produce l’ennesimo sciacallo della disinformazione: distanziare più che unire, rallentare più che accelerare, intorpidire più che rinvigorire.
Magari più pragmaticamente quel Dio, scomodato dall’avvoltoio mediatico dalle mentite spoglie spirituali, ci vuole ricordare ciò che Renzo Piano ci spiega lucidamente quando dice che il terremoto nella nostra terra non è una “fatalità, un intruso da allontanare una volta per tutte”.

La terra trema perché è la sua natura, ma forse trema anche per ricordarci che siamo un popolo di eroi, condottieri, santi, poeti e artisti, romanzieri e artigiani. Una terra in cui la saggezza diventa sapienza del saper fare.

Un saper fare che deve essere recuperato per ricostruire, se non vogliamo che il nostro ‘giardino d’Europa’, ammirato e a volte invidiato, si trasformi in una palude putrida di disperazione. Perché l’Italia, come ci ricorda nuovamente Renzo Piano, è “un bene comune la cui responsabilità è collettiva.” E allora forse quel terremoto ci ricorda nuovamente che quella responsabilità è di tutti. Di un governo che, se vuole competere in Europa con un’Italia sana, non potrà cercare soluzioni immediate alla problem solving americano per affrontare problemi che non sono problemi ma eventi che richiedono cauta preparazione e prontezza di gestione; degli osservatori inconsapevoli per i quali il terremoto non è un fatto estraneo che tocca solo i cuori ma che rende monco un sistema che rischia di non funzionare più da Nord a Sud; di tutti coloro, eroi involontari, che quel tragico evento da Amatrice in poi l’hanno vissuto direttamente e che quell’eroismo sapranno metterlo a frutto per ricostruire, come ci insegna un gruppo di ragazzi marchigiani che a qualche giorno dal terremoto si attiva creando un’illuminata operazione, Daje Marche, un portale e-commerce ideato per sostenere le imprese marchigiane provate dal sisma. Ma è anche responsabilità di tutti quegli avvoltoi complottisti, oppositori, umoristi, millantatori, ignoranti proprio perché ignorano quali effetti il loro protagonismo mascherato da verità produca in tempi di calamità. Coloro che rubano il tempo dell’informazione disorientando l’attenzione, coloro che destabilizzano le relazioni disgregando le reti di cooperazione e solidarietà e, in ultima analisi, coloro i quali, mettendosi al centro della ribalta ammaliati dalle luci della popolarità, saturano uno spazio necessario alla progettazione e alla ricostruzione, non lasciando altro che demolizione.