officina della comunicazione
Moda ≠ Stile
CHARLIE'S SUGGESTION
Anche quest’anno come ogni anno si è tenuta, nella sfavillante New York italiana, quella che potremmo definire la fiera dell’evanescenza, la tanto amata da alcuni, e odiata da altri, Fashion Week di Milano. Tutto evapora nel giro di qualche giorno, giusto il tempo di far sì che le grandi case dell’apparire possano dispensare diktat sulla prossima stagione alle modaliste (del resto ci vuole una certa specializzazione per far informazione in questo campo), piuttosto che alle fashionencer (che hanno un’attitude modaiola assai diversa dagli ordinari influencer) passando comunque per chi ci vuol essere perché non ci si può non essere. Un evento, insomma, che in un senso o nell’altro sempre strega. Strega di odio tutti gli acerrimi nemici dell’apparire (che forse non sanno che non si può non apparire), sicuri che con un paio di comodissime birkenstock non si appaia e si possa andare ovunque. Oppure scalda il cuore d’amore a tutti coloro che all’ultima sfilata di stagione piangono già di nostalgia in attesa del prossimo rendez vous in cui compiere la rituale messa in scena de ‘Il Diavolo veste Prada’.
Che si stia da una o dall’altra parte, poca importa, perché all’impudicità del gusto non si rimane comunque estranei, che si scenda in strada a popolare la tribù degli improbabili fashionisti piuttosto che ci si rintani in casa infilando i comodi sandali tedeschi e si compiano riti vudù con incenso profumato di birra e wurstel, propiziatori di una veloce ritirata della vanità così come quella di Attila alle porte di Roma. Insomma una cosa è certa, in entrambi i casi si modifica il proprio comportamento. E qua volevamo arrivare.
Non è un caso che il termine ‘moda’ che deriva dal latino modus, ovvero maniera, norma, regola, originariamente indicasse uno o più comportamenti collettivi con criteri mutevoli. E cosa vi può essere di più significativamente mutevole dell’abito che ci consente quotidianamente di giocare al gioco dell’imbroglio e del mascheramento?
Un inganno che hanno ben capito i ‘padri fondatori della moda’, non perché nell’inganno vi sia qualcosa di disdicevole, del resto ci inganniamo ogni giorno, e neanche perché si auspichi il ritorno di un’applicazione moralista del celebre detto “la moda passa e lo stile è per sempre” (che lo si attribuisca a Yves Saint Laurent o a Coco Chanel) che altro voleva intendere rispetto ad una visione dell’individuo come di un essere immutato nei gusti, nelle abitudini e quindi anche nello stile. Come se la persona non si modificasse nella capacità di esprimersi anche nell’apparire. Ma solo perché nel gioco dell’inganno a far la differenza tra la moda da una parte e lo stile dall’altro è proprio il processo che nel primo caso passa dal fuori al dentro, rendendo l’esteriorità come fugacemente mutevole al cospetto dei trend, mentre nel secondo il senso parte dal dentro e arriva al fuori, trasformando l’apparire come costantemente modificabile alle esperienze della vita.
Ciò che ci interessa della Fashion Week è quindi proprio il suo essere difforme dalle regole per ricercare i canoni della modificabilità piuttosto che della mutevolezza omologante. Quindi nonostante il campo da gioco di questo evento sembri propendere a favore della moda, proprio per quel ‘fashion’ che è nel nome, è necessario operare un distinguo tra il tutto e la singola parte. Non tutti coloro che vi partecipano, osservati ed osservatori o non osservanti, sbiadiscono così velocemente sulle passerelle del tanto, se non più atteso evento che potremmo definire della ‘fashion sapience’. Già perché un po’ di sapienza ci vuole per scegliere proprio un’occasione come la Fashion Week per differire dalla comunanza e collocare un prodotto, per molti un accessorio, ma per vocazione un oggetto di design, come l’occhiale. E’ questo il caso di Silhouette Eyewear che trova nello stilista Arthur Arbesser, giovane talento di formazione londinese e con esperienza settennale alla corte di Re Giorgio, dove lo stile non è di certo una promessa ma una concretezza, la più promettente interpretazione di ciò che l’azienda austriaca intenda proprio con la parola stile. Due mondi che si sintonizzano trovando la propria chiave musicale in una prospettiva minimalista e quindi essenziale, dove l’oggetto non soverchia chi lo indossa ma da egli si lascia interpretare. Un design che viene portato alle sue forme più essenziali, con una qualità sartoriale ai limiti dell’eccellenza. Del resto come dice lo stesso Arbesser “il mio design è focalizzato sull’eccezionale”, inteso, diremo noi, come differenziale di identità, “che rimane in eterno” perché irripetibile, dello stile di una persona che attraverso esso appare in quell’istante. E proprio da queste premesse, nasce la terza limited edition dell’azienda austriaca, Arthur Arbesser for Silhouette.
Limited non perché limitata nel tempo o perché a esser limitato è l’accesso, ma perché essa racconta di uno stile limitato a tutti coloro che lo sceglieranno come cifra espressiva e che pertanto non potrà mai essere espressione di un ‘vox modi’ dell’apparire.
Anche questa è la fashion week: moda≠stile.