officina della comunicazione

Liquid or not Liquid?

Immaginiamo di avere davanti agli occhi un oggetto, un qualsiasi oggetto, che sia esso una penna, una scarpa oppure un computer o qualsiasi prodotto si desideri osservare. Potremmo iniziare a raccontarci la storia di quel manufatto.

Forse all’inizio ci verrà da pensare alle parole che ci sentiamo ripetere in televisione o che leggiamo di continuo navigando in internet o sfogliando qualche rivista patinata. Potrebbero avvicendarsi nella nostra mente un susseguirsi di claim accattivanti generando storie che non vadano al di fuori delle solite storie. Ma poi, forse, quando avremo esaurito tutto quel repentino discutere che siamo abituati a sentirci dire, quell’oggetto ci parlerà. Potremmo quasi sentire la sua voce, al punto che inizierà a descrivere tante altre realtà.
Magari quella di una persona che chiusa nel suo ufficio lo ha disegnato, con cura di dettaglio, riversando in quello schizzo tutto il suo mondo, le sue aspettative, i suoi valori e, chissà, anche le emozioni al pensiero di quando qualcuno lo avrebbe potuto toccare per la prima volta dal vivo.
Poi quello stesso oggetto potrebbe proseguire passando in rassegna la vita di una moltitudine di altre persone. Gente che, nel maneggiarlo per farlo arrivare negli scaffali o sui banconi, si è sentita fiera nell’immaginare i primi sguardi incantati nell’osservarlo.
Ma, ora potrebbe succedere qualcosa in più, se solo iniziassimo a indagare quel prodotto con altri sensi, ad esempio con il solo tatto, scoprendone una consistenza particolare, di cui magari non ci eravamo accorti prima.

E così la vita di tutti quegli invisibili che immaginavamo popolassero quell’oggetto, potrebbe cominciare a intrecciarsi con la nostra.

Uno scalpitio di pensieri, di immagini e di parole iniziano a tessere un viaggio che va al di là di quell’oggetto.
E a quel punto potremmo anche dimenticare quel tale brand o liquefare nella nostra mente quel marchio che troneggia sulla confezione appena aperta e già scartata, cui delegavamo, perché alla moda, il motivo del nostro possesso.
E alla fine, apriremo gli occhi e lo sguardo correrà oltre l’oggetto perché avremo scoperto la storia che ci lega a lui, che è tutta un’altra storia da quella che eravamo abituati a sentirci raccontare.
Ora sì che quell’oggetto non potrà più esistere al di fuori di noi! Avrà smesso di essere una scomoda etichetta in cui identificarsi per divenire un complice attraverso cui, ma non solo per mezzo del quale, rappresentarsi.

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Sarebbe bello se fosse così. Se veramente gli oggetti avessero la capacità di raccontare storie. O magari ci siamo solo disabituati ad ascoltarli, quegli oggetti, per farli vibrare di vita nostra. Perché quel manufatto può acquisire la capacità di trasformare la nostra realtà più che inventarla, di raccontarla più che descriverla, di narrare la storia che c’è dietro più che comunicare ciò che è evidente.
E così, dopo il burrascoso risveglio dal seduttivo “perché tu vali!”, potrà l’oggetto dotato di materialità o immaterialità, tornare a parlare? Come riusciranno le aziende a interpretare l’ambivalenza dei consumi che alcune di loro hanno contribuito a creare? Bel dilemma, ora il gioco si fa interessante, perché richiederà lo sforzo e l’attenzione di recuperare quella raffinata e personalissima relazione estetica che fa parte della vita. E mentre alcune aziende persistono in anacronistici trend comunicativi fondati sulla seduzione del consumatore attraverso modelli iconici assolutamente distanti dalla realtà, altre tentano di imitare emergenti approcci già divenuti di moda, come la delegante comunicazione dal volto umano, nella speranza che ciò che ha funzionato per qualcuno, funzioni anche per loro.
Ma la sfida è proprio questa. Secondo noi b_linkisti, per un’azienda oggi comunicare un prodotto vuol dire costruire un’intricata relazione di senso attraverso la generazione di paradigmi di comunicazione che vadano oltre trend passati e presenti, con la finalità di far espandere quell’oggetto in qualcos’altro, o, sarebbe il caso di dire, in qualcun altro.
Dal nostro punto di vista, è questa la differenza tra un leader, innovativo perché si assume la responsabilità di essere un benchmark coerente e credibile della propria promessa di brand, e dall’altra un follower di best practice di successo che evidenzia al contrario confusione nel sistema consumi. Gli esempi sono all’ordine del giorno. Innovatori come il marchio Dove, sensibile e visionario interprete dell’epoca che vive prima ancora che essa si realizzi, il quale, in tempi non sospetti, con la campagna Dove Real Beauty ha sancito, prendendo a prestito le parole di Brad Jakeman, president global beverage group PepsiCo., “uno dei più meravigliosi e creativi modi di esprimere una verità umana globale, nel modo più incredibile e semplice.”
E tanto per citare un altro autorevole caso di nostra diretta conoscenza, Silhouette eyewear, con cui da anni collaboriamo alla costruzione adattiva della brand communication, si è saputo porre sul mercato come innovatore grazie al coraggio di intraprendere una strada in controtendenza molto prima che essa diventasse tendenza, perché credibile e coerente alla propria vocazione di brand e discordante dalle modalità del copy-paste perseguite dai più. Infatti, come sottolinea Michele Villotti, direttore generale della filiale italiana di Silhouette, in un’intervista rilasciata per Media Key Special Report ‘aziende e comunicazione’, “la logica del brand nasce e si sviluppa dai suoi valori fondanti, insiti nel nucleo delle prestazioni in cui si sostanzia la sua promessa”.

Per noi b_linkisti, il risultato di lavorare sulla costruzione del paradigma di comunicazione è chiaro. Da una parte si sostiene l’azienda in quella necessaria trasformazione da seduttore imitatore a organizzatore sociale, ruolo più consono alle attuali modificazioni del sistema consumi, come già nel 2012 evidenziava Giovanni Siri, direttore scientifico dell’Istituto GPFresearch di Milano, nel suo libro “Cercare il futuro – la transizione della società italiana verso il post-consumismo”. Dall’altra si crea una più fluida relazione di senso tra brand e persona, che nel caso di Silhouette ha portato a far emergere, dopo oltre tre anni di applicazione e verifica sul campo, una nuova nicchia socio-culturale, i Litestylers, simbolo di innovazione espressiva e per questo perfettamente corrispondenti alla brand ID dell’azienda. È evidente che tale approccio consente, come afferma anche Paola Botta, direttore marketing e comunicazione Silhouette Italia, di “stimolare un’adeguata brand interaction fondata proprio sulla costruzione di relazioni di scambio che facilitino interazioni basate sulla partecipazione di valori comuni” e che, aggiungiamo noi, supera le tradizionali e ormai obsolete targhettizzazioni e stereotipizzazioni di mercato.

Se vuoi approfondire l’intervista completa di Michele Villotti, direttore generale della filiale italiana di Silhouette, su Media Key Special Report ‘aziende e comunicazione’ leggi qui.

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Photo credits Francesco Pizzo