la stanza dei cinici
L’abilità discriminata
CHARLIE'S SUGGESTION
“E pur si muove” dichiarava Galileo Galilei al tribunale dell’Inquisizione al termine della sua abiura dell’eliocentrismo, “e pur si muova adeguatamente” aggiungiamo noi, con variazione sull’affermazione galileiana, osservando gli attuali provvedimenti in materia di disoccupazione giovanile.
Del resto “parlare di un anno che finisce”, come ha detto Papa Francesco nell’ultimo giorno del 2016, “è sentirci invitati a pensare a come ci stiamo interessando al posto che i giovani hanno nella nostra società.” E noi, concordi con Bergoglio, abbiamo accolto l’invito a farlo. Il punto di partenza della nostra lunga riflessione è una dichiarazione del commissario europeo per l’istruzione, la cultura, il multilinguismo e la gioventù, Tibor Navrasacsics il quale, qualche tempo fa, aveva affermato che “seppur più istruiti, più informati e più connessi dei loro genitori, quasi un terzo dei giovani in Europa è a rischio povertà o di esclusione sociale. Non possiamo permetterci di lasciarli indietro. Dobbiamo lavorare per fare in modo che ogni giovane trovi il proprio posto nella società e ci aiuti a costruire un’Europa aperta e tollerante”. Parole “sante” quelle del commissario europeo, tanto quanto quelle del Santo Padre, visti anche i dati che evidenziano un problema in Europa, quello, per l’appunto, della disoccupazione giovanile ai limiti della piaga sociale (8,7 milioni di ragazzi su 90 tra i 15 e i 29 anni non hanno lavoro). Quindi, a conti fatti, sembrerebbe che né più conoscenza, né più istruzione, né tanto meno l’ambita competenza digitale possano in questo momento favorire il traghettamento dei giovani verso il mondo del lavoro. Insomma se questo è il trend europeo verrebbe da far spallucce bofonchiando “mal comune, mezzo gaudio”. E invece c’è poco da essere allegri, perché indovinate quale Paese concorre a innalzare la media europea? Esattamente l’Italia con il suo 39,20% di giovani disoccupati (Eurostat 2016), quasi il doppio della media UE e con solo dietro Spagna e Grecia. Ma nel “panorama più stagnante d’Europa” c’è dell’altro. Anche per i neo-lavoratori, o presunti tali, la situazione non migliora nel nostro Paese (Censis): per la prima volta i giovani sono più poveri dei loro padri (reddito inferiore del 26,50% rispetto ai giovani di 25 anni fa) e sono intrappolati nei livelli più bassi del mondo del lavoro (41% tra i 15-35 anni svolge mansioni operative e manuali). Insomma, una realtà sconfortante evidenziata anche dal discorso di fine anno del Presidente Sergio Mattarella, il quale sembrava far eco alle menzionate parole del commissario europeo, quando ha dichiarato che “nel nostro Paese, se per gli adulti il lavoro è insufficiente (…), lo è ancor più per i giovani. La vostra è la generazione più istruita rispetto a quelle che vi hanno preceduto. Avete conoscenza e potenzialità molto grandi. Deve esservi assicurata la possibilità di essere protagonisti della vita sociale”. E a quanto pare le premesse per vedere realizzato questo protagonismo ci sarebbero, visto che, secondo una ricerca dell’osservatorio smart working del Politecnico di Milano, il sistema professionale, da tempo, ha imboccato con un biglietto di sola andata la strada del cambiamento con destinazione la “Sacra Terra Smart”: dinamiche lavorative sempre più delocalizzate e digitalizzate. Non solo, ma tale ricerca vedrebbe proprio nel salto generazionale il vero acceleratore di questo inevitabile processo di mutazione organizzativa e professionale. Ecco quindi che il futuro prossimo, ma anche il presente, sempre più tecnologico, veloce e flessibile, sta preparando un fertile campo professionale proprio per quella fetta di mercato dei prossimi lavoratori, che tuttavia non riescono a tradurre in azione il loro capitale di abilità per competere nella nuova galassia professionale, nonostante abbiano dalla loro l’esperienza dell’inesperienza del lavoro fisso e a lunga scadenza, oltre che l’esser cresciuti a pane e tecnologia.
E’ evidente che, “non essendo nati imparati”, come recitava un adagio popolare, per i ragazzi il sapere di avere un’abilità non si traduce in sapere come agire quell’abilità.
E di nuovo le statistiche evidenziano una tendenza. Ormai da anni si sta assistendo al fenomeno sconfortante dei NEET. Un acronimo che sta a significare NOT in EDUCATION, EMPLOYMENT or TRAINING, persone non solo prive di un posto di lavoro ma anche scoraggiate al punto da non seguire alcun percorso di formazione o training. Un fenomeno quello dei neet il cui primato, udite udite, tocca, tra gli altri, nuovamente all’Italia con il 26,90% di giovani tra i 15 e i 34 anni (la media UE è del 16,10%) e alla cui base sembrano concorrere differenti fattori di rischio, tra cui condizioni esterne come l’incontrollabile e corrosivo lavoro in nero (quindi in alcuni casi i giovani lavorano ma non possono dichiararlo). Ma è provato che ad alimentare il fenomeno ci siano anche elementi interni, quali ad esempio “la sensazione di risicata fiducia nelle istituzioni e una crescente sensazione di smarrimento che oggi riguarda un quarto dei giovani europei”. E come non sentirsi precario e smarrito con condizioni contrattuali non negoziabili e una previsione di anticamera al mondo del lavoro che va dai 9 mesi della media europea ai 14 italiani? Una generazione, insomma, smarrita nella sua stessa inabilità di agire, che di certo non va confusa con incapacità, ma piuttosto con inadeguatezza. Chiarito dunque quale sia per i giovani il problema della loro inazione (“non so come fare”), viene da domandarsi chi contribuisca a generare tale inattività. Perché se il popolo dei neet cresce, non è solo per effetto della mancanza di un lavoro, ma anche come conseguenza della sfiducia nei riguardi dei percorsi formativi ed educativi. Come stupirsi quindi se, secondo Eurostat, l’utilità per trovare lavoro dei servizi sociali italiani, in primis la scuola, sia pari a 0? Ecco allora salire sul banco degli imputati l’istituzione scolastica, che rende inabile chi ha il potenziale per essere abile.
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Infatti, è umanamente naturale sentirsi “stupidi e inutili”, se la scuola continua a chiedere ai pesci di salire sugli alberi. E’ proprio quello che, parafrasando Einstein, afferma il rapper americano Prince Ea nell’appassionato video d’appello The People vs. the School, in cui porta davanti alla corte l’istruzione scolastica moderna, accusandola di essere sorpassata e sopravvissuta troppo a lungo, colpevolizzandola per non essersi saputa modificare in oltre 100 anni di evoluzione, incriminandola di preparare gli studenti al passato piuttosto che al futuro. In quest’audace oratoria di oltre 6 minuti, il rapper declama il diritto di ogni talento di avere la stessa possibilità, auspicando un mondo dove non si sia più obbligati a competere ma aperti a collaborare e, soprattutto, dove i pesci non siano costretti ad arrampicarsi sugli alberi. Abbiamo così rintracciato la sorgente di ogni inabilità che non è da attribuirsi però ai giovani, piuttosto all’inadeguata istruzione scolastica moderna. Tuttavia, come dicevamo in apertura “eppur si muove”. Non è un caso che alcuni Governi, tra cui anche l’Italia, abbiano visto margini di miglioramento al problema dell’occupazione giovanile proprio nella costruzione di percorsi di specializzazione più mirati. Insomma la riforma scolastica è la soluzione. E anche il nostro Paese si è allineato a tale strategia con la legge 107 del 2015 sulla Buona Scuola che si pone come principale obiettivo di sanare un gap tra scuola e professione attraverso la nuova modalità didattica dell’alternanza scuola-lavoro che è rivolta a creare sinergia tra le due parti, individuando quelle capacità che permetteranno ai giovani di interfacciarsi con la realtà professionale, tra cui, elemento fondamentale, la costruzione di un percorso ad hoc. Sembrerebbe che si sia trovata finalmente la medicina per la disoccupazione giovanile: percorsi specializzati con esperienza sul campo e anche un pizzico di incentivi alle assunzioni a favore delle aziende che accetteranno i giovani dell’alternanza scuola-lavoro.
Ma la medicina che il medico sta prescrivendo è veramente quella più adeguata per curare la malattia?
Tradotto, la stimolazione dell’incontro tra domanda e offerta, attraverso un apprendimento duale, ovvero teorico-esperienziale, che traghetta l’homo sapiens nella dimensione dell’ormai affermato homo faber, sostiene pragmaticamente i giovani nel divenire abili pescatori nell’oceano professionale? O piuttosto tale riforma non si rivelerà essere una soluzione-tampone che rischia di avere in un futuro prossimo tanti pescatori che sapranno gettare la lenza ma, quando il pesce avrà abboccato all’amo, non sapranno girare il mulinello? Questa domanda non vuole invalidare la riforma scolastica che anzi, si deve ammettere, rappresenta un’importantissima presa di coscienza da parte del precedente Governo sull’esistenza del problema e anche un’assunzione di responsabilità verso l’inadeguatezza formativa dell’attuale sistema educativo. Piuttosto, sebbene tale legge si dimostri efficiente nell’immediato anche attraverso precisi casi come il conclamato fenomeno dell’Istituto Omar di Novara con il suo 95% di assunti (che non sia l’eccezione che sconferma la regola?), il nostro dubbio è sulla sua validità futura e quindi sulla sua efficacia. Guardando oltre, insomma, ci domandiamo se la riforma della Buona Scuola renderà gli studenti anche Buoni professionisti, che sappiamo attuare la capacità di costruirsi e ricostruirsi una propria professionalità a ogni modificazione del sistema lavoro, ovvero, se saprà renderli “protagonisti della vita sociale”. Dal nostro punto di vista tale riforma risulta essere parzialmente adeguata, in quanto tattica nella ristrutturazione immediata del sistema educativo, ma non del tutto adeguata, in quando non strategica nella generazione di un saltus percettivo che integri in sé un dato di realtà: il mondo del lavoro si è incontrovertibilmente modificato a svantaggio della predittività. Ciò che era non è più, ciò che è oggi domani potrebbe non essere. In tal senso quindi un apprendimento duale, che oscilli tra conoscenza e competenza, potrebbe non sostenere un concreto e quanto mai necessario cambio di rotta. La storia ancora non passata ci ha dato un esempio tangibile con i tanti 40-50enni che, pur avendo dalla loro conoscenza e competenza, hanno avuto enormi difficoltà, in alcuni casi ancora non sanate, nel ricollocarsi nel mondo del lavoro. Questo non perché fossero incapaci, ma perché inadeguati nel riprogettarsi professionalmente in un sistema lavorativo mutevole. Certo, a loro svantaggio c’era (e c’è) la crisi economica, ma ogni crisi porta in sé un nuovo equilibrio che va ridisegnato. Di fronte ad un mercato del lavoro sempre più flessibile, imprevedibile e veloce, in cui l’assunzione a lunga scadenza e le regole precostituite sono anacronistiche e quanto mai inattuabili miraggi che mal si sposano con l’innovazione, è necessario sapersi confrontare con il principio di incertezza. Principio che non si traduce necessariamente in precarietà, ma piuttosto in avamposto della libertà espressiva non più consumata nell’arco della vita all’interno di uno stesso ruolo specialistico. Il sistema professionale sta subendo una mutazione che richiede un’evoluzione della specie che non trova le proprie premesse di successo nel semplice recupero della tradizione dell’homo faber, ma in un suo superamento. Se il solo sapere si è dimostrato inidoneo nel recente passato, il saper fare non è più sufficiente per misurarsi in questo nuovo universo, dove la più utile abilità si dimostrerà, probabilmente, il saper costruire e progettare.
La progettazione è l’anima della vita, è la concretizzazione dell’esserci che è sempre proiettato avanti rispetto a sé.
È l’attitudine a saper creare dal nulla o, per utilizzare le parole dello Chef Massimo Bottura, l’essere “in grado di maneggiare l’irrazionalità”. In quest’ottica, l’incentivazione alle assunzioni potrebbe rivelarsi una tattica ma non una strategia, proprio per il suo rendere invalidi prima ancora che ci si possa dimostrare validi costruttori. E allo stesso tempo, mettere in contatto la domanda e l’offerta, limitandosi a far esperire conoscenze e acquisire competenze, potrebbe essere una tattica che rischia di portare, sul mercato del lavoro, giovani professionisti difettati alla consegna, perché collaudati con la data di scadenza che non va oltre il sistema che hanno esperito. Ma poi, quando il sistema cambierà nuovamente e gli incentivi finiranno, cosa succederà? Riusciranno questi giovani, non più giovani, a ritrovare “il loro posto nella società?”
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Forse, ed è questa la riflessione che ci poniamo, per creare un dialogo costruttivo, il mondo del lavoro va raccontato in modo che siano per l’appunto i giovani a saper costruire una loro progettualità professionale non predittiva ma adattiva e utile per il tempo che funzionerà. La capacità di costruire progettazione conduce all’attitudine di saper trasformare quella stessa progettualità a seconda delle modificazioni di contesto e porta alla capacità di cambiare rimanendo gli stessi. In ultima analisi rende possibile quel saltus di paradigma che oggi è richiesto ai giovani per partecipare concretamente al mondo del lavoro, diventare homo auctor, ovvero autore di sé e della propria professionalità, affinché non ci si debba accontentare ma ci si possa realizzare. Perché, riprendendo Prince Ea, “oggi abbiamo bisogno di persone che pensino in modo creativo, innovativo, critico ed autonomo con la capacità di connettersi.” Pertanto, se l’istruzione non vorrà correre il rischio di tornare sul banco degli imputati a rispondere dell’accusa di “abusare dell’intelligenza”, potrebbe essere utile immaginare una revisione della rotta che integri le 2C (conoscenza-competenza) dell’attuale apprendimento duale con una terza C, la costruttività, più consona ad un apprendimento liquido, che favorisce un’esperienza adattiva, più che predittiva, ed un inserimento dei giovani nel mondo del lavoro in quanto individui dotati di individualità creativa e potenziale espressivo. E se da un certo punto di vista ci siamo permessi di definire l’attuale riforma scolastica parzialmente adeguata, perché incompleta, nell’avvantaggiare i giovani della media superiore, risulta, al contrario, nostro malgrado, totalmente inadeguata a sanare il problema di una fetta di mercato, che sempre giovane è, ma al momento dimenticata, dato che non se ne occupa. Ci stiamo riferendo ai giovani laureandi o laureati, nati tra gli anni 80 e 2000, etichettati con tante definizioni tra cui Millennials. Giovani disillusi che hanno visto svanire l’eldorado del posto fisso prima ancora di raggiungerlo, già professionisti senza professione, che non sembrano trovare la soluzione all’occupazione nel pezzo di carta che si sono conquistati (per chi ha una laurea la disoccupazione scende solo al 10,5% rispetto al 12,10% di chi ha un diploma di scuola superiore). Questi giovani, per alcuni “choosy” e per altri “bamboccioni”, dimenticati e senza guida si rimboccano le maniche ognuno a modo proprio per avere dalla vita quello che l’istituzione sembra non offrire: “tornano alla terra incolta dei nonni, danno vita a figure professionali labili o inventano professioni autonome” e riciclate dal passato piuttosto che “si improvvisano fondatori di startup senza paracadute” (Censis), arrivano finanche a lasciare la propria terra per cercare un destino imprecisato altrove. Quegli stessi giovani sono ancor più dimenticati perché abbandonati alla deregolamentazione formativa in materia professionale delle Accademie Universitarie, le stesse che ancora oggi, nella maggior parte dei casi, pensano che la teoria debba precedere la pratica. Una credenza questa confermata dalla prestigiosa pubblicazione inglese Timer Higher Education che, a seguito di un sondaggio tra head hunter e amministratori delegati di aziende di alto livello, ha escluso gli Atenei italiani dalla lista internazionale delle 20 migliori Università europee per impiegabilità. Insomma riuscire a delineare un quadro esaustivo delle azioni messe in opera dalle Accademie italiane, pubbliche o private, per creare un ponte tra i laureandi e il mondo del lavoro, sembra essere un’ardua impresa. Ognuno se ne occupa diversamente, andando dall’ABC dei canonici stage&placement piuttosto che della costruzione del curriculum vitae e della simulazione dei colloqui, fino a incontri con esperti che raccontano di un mondo di oggi che domani sarà già cambiato, passando anche per sorprendenti proposte di personal branding&reputation. Un’offerta frammentaria e non strategicamente progettata, di cui forse bisognerebbe chiedere parere proprio a quei giovani che poi il problema lo dovranno affrontare o lo stanno già affrontando. Una proposta formativa assente di aderenza alla realtà, come l’ultimo canto del cigno dell’ex ministro dell’istruzione Stefania Giannini con il suo recente decreto sui tirocini per 1 anno a 0 euro. Ma soprattutto ciò che sembra essere latitante è la sensibilità, quella di alcuni Atenei, a un problema che pare non riguardarli, almeno fino a che, quei giovani disillusi sceglieranno di ingrassare il popolo dei neet trasformando quegli stessi Atenei, se in essi non vedranno soluzione alla loro disoccupazione, in uno sconfinato deserto dei Tartari senza iscritti e iscrizioni.
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E se per caso si volesse partecipare di un problema comune e in conseguenza sociale, piuttosto che personale, basterà ragionare sul fatto che proprio questa fetta di giovani “erranti” rappresenta la vera urgenza del nostro sistema lavoro. Perché se i più giovani avranno tempo, loro stanno già consumando il proprio tempo professionale non contribuendo alla costruzione dei canoni di esperienza adattiva da tramandare a chi verrà dopo di loro, mancando in questo modo alla più grande sfida che li riguardi, essere il più immediato e importante volano di ripresa economica per “costruire” come dice Tibor Navrasacsics “un’Europa aperta e tollerante.” D’altro canto, riprendendo in conclusione le parole di Bergoglio “ci aspettiamo da loro ed esigiamo che siano fermento del futuro” ma ci comportiamo con loro “come il locandiere di Betlemme che davanti alla giovane coppia diceva: qui non c’è posto” quando, noi adulti gioiamo indignati per i 100 mila giovani che se ne sono andati dall’Italia “perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi.”
Ma come non soffrire nel perdere il proprio sguardo sul futuro?
Del resto, il paradosso dei paradossi per i millennials, una generazione da molti definita complicata, ma in verità solo differente dalle precedenti e dalle successive, sembra essere che, seppur abbandonati, perché emarginati oppure espatriati, in essi esistano le migliori premesse di costruzione. Hanno il gene dell’homo auctor che sa sfidarsi per progettare se stesso, proprio perché abituati a vivere nell’indefinito, nell’incertezza che per essi è sempre stata una certezza. Hanno l’audacia di Marta Fano, ricercatrice italiana in Francia, quando replica con enfasi alla dichiarazione del Ministro del Lavoro Poletti, “costi quel che costi noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro”. Essi possono realizzare più compiutamente quello che Nietzsche definiva l’homo novus, quando diceva che l’uomo per costruire se stesso va superato oltre l’uomo di oggi. E quindi se da una parte il giovane è disposto ad assumersi il rischio di vivere nell’indefinito, “di compiere iniziative piene di audacia e di speranza”, dall’altra l’istituzione, che sia pubblica o privata, dovrà sapersi sfidare nell’essere in grado di fornirgli una bussola per navigare nell’ignoto, abilitandolo, dunque, all’abilità di saper progettare la propria abilità di costruire una “comunità di vita”.