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La visione della revisionaria d’impresa
Lei è Francesca Polti, l’untouchable tra gli untouchables, che nel nostro sondaggio di ottobre ottiene, in mezzo ad altri 12 illustri imprenditori, il maggior numero di voti con ben il 19,60% di preferenze. Insomma, a gran voce virale, il suo saper fare impresa convince al punto da essere di ispirazione addirittura per la guida del nostro Bel Paese. Così, chiarito il fatto che il nostro gioco era una provocazione rivolta, non a far politica, ma a valorizzare l’eccellenza imprenditoriale italiana, abbiamo deciso di chiedere direttamente a lei cosa avesse più convinto i digitanti tanto da far cliccare il tasto premi e invia ripetutamente sul nome Polti. Lei accoglie l’invito telefonico e, in un confronto appassionato di oltre un’ora, ciò che emerge è un ritratto che supera l’immagine dell’abile imprenditore. Saper fare impresa oggi non vuol dire soltanto guidare un’azienda all’eccellenza, ma significa anche essere una persona, uomo o donna, che costruisce la propria autorevolezza professionale dialogando nel sistema in cui agisce, invece che chiudendosi nella propria visione di genere. Implica essere genitore che educa i figli al rispetto della diversità che crea maggior valore. Vuol dire contrastare l’immobilismo di un sistema finanziario che rischia dove non c’è rischio d’impresa. Sottintende suggerire al Governo di ascoltare quegli imprenditori che rappresentano “una rarità che va sostenuta e rispettata nel loro modo di far impresa”. In breve, questa è l’umana visione di una revisionaria del valore d’impresa, Francesca Polti.
Partiamo da “Operazione Untouchables”. In un post su Linkedin hai definito l’iniziativa “un gioco simpatico e un po’ provocatorio”. Come hai accolto la tua candidatura?
Inizialmente ero un po’ incredula. Pensavo fosse uno scherzo. Poi quando ho capito che era un ‘gioco’ l’ho trovato subito divertente e, appunto, provocatorio. Devo ammettere che mi sono sentita lusingata, visti i nomi degli altri candidati.
Dal tuo punto di vista, cosa ha convinto i digitanti a votarti?
Il fatto di aver raccolto la maggior parte dei voti mi ha proprio sorpresa. Mi sono chiesta “ma ho così tanti amici?” Voglio pensare che chi mi ha votata l’abbia fatto perché mi conosce e mi stima come persona oppure perché conosce l’azienda e ha voluto gratificare il coraggio e gli sforzi che abbiamo fatto e che continuiamo a fare per rimanere in Italia.
Invece per chi non ti conosce, come descriveresti, anche attraverso una metafora, te stessa e la tua azienda?
Quest’anno Polti compie 40 anni, quindi non è proprio una start-up, giusto per utilizzare un termine in voga, bensì un’impresa di seconda generazione che ha vissuto il boom degli anni 70 e 80. Appartiene quindi alle così dette aziende di produzione del tessuto industriale italiano. Sotto certi punti di vista, la definisco unica perché nel piccolo elettrodomestico siamo rimasti in pochi a produrre in Italia. È un’azienda a conduzione e proprietà familiare, ma con una gestione interna manageriale. Questo vuol dire che c’è un bel mix di persone, da una parte chi lavora con noi da tanti anni, addirittura dalla fondazione, e dall’altra chi, arrivando con me, si è integrato nella tradizione dell’azienda pur provenendo da esperienze multinazionali eterogenee. Quindi, tornando all’idea della metafora che mi chiedevi, se dovessi definire la mia impresa con un’immagine forse utilizzerei quella di Davide e Golia, perché oggi Polti, nonostante sia leader in alcuni settori del piccolo elettrodomestico, si confronta sul mercato con giganti che hanno risorse molto più importanti delle nostre, dai quali ci difendiamo con la forza della passione verso il nostro brand e prodotto, ma soprattutto con la fedeltà e il rispetto che nutriamo verso il nostro cliente. Ovviamente speriamo, come Davide, di superare con l’arguzia il gigante Golia.
Quindi tu ti senti Davide?
Forse mi sento più un mix. A volte sono Giovanna D’Arco oppure Don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento, soprattutto quando mi trovo a fronteggiare un sistema, quello finanziario in particolar modo che vive nell’immobilismo. In quei momenti avanzano molti dubbi del tipo “ce la farò, oppure voglio spostare solo una montagna?” In altre occasioni invece prende forza la fiducia, perché vedo che, nonostante la fatica, stiamo producendo cambiamento e, in conseguenza, la famosa montagna inizia a spostarsi. Quindi mi sento Davide. Per questo, se dovessi descrivere me stessa, userei aggettivi come determinata, passionale, forse, per impiegare un altro termine un po’ inflazionato ma che rende bene il senso, resiliente.
Invece noi nel sondaggio abbiamo preferito chiamarti la Revisionaria. Come ti sei sentita in questa definizione?
Bene, anche se sono stati più gli altri a riconoscermi in questa espressione. Io tendo, un po’ come molte donne, a essere parecchio critica verso me stessa, mentre devo ammettere che gli uomini sono più bravi a celebrare i risultati. Io ci provo a prendere spunto da loro, ma non sempre mi riesce. Quindi, quando è uscito il sondaggio con il mio profilo, parecchi mi hanno iniziato a dire “caspita ti hanno descritto proprio bene”. La revisionaria, un termine nuovo e originale che valorizzava la capacità di avere una visione e di saperla perseguire. Mi ha appassionata sentirmi descrivere da altri, soprattutto in una modalità in cui non avevo pensato prima ma che alla fine rispecchia proprio la mia idea di ristrutturazione aziendale. In questi anni ho sempre cercato di integrare un’impronta più familiare a una conduzione manageriale, unendo alla tradizione una visione più moderna che potesse generare un modello organizzativo strutturato e rigoroso. Per me era essenziale riuscire a gestire la nostra passione canalizzandola con metodo verso una specializzazione liquida anziché caotica, per evitare che tutti facciano tutto. L’obiettivo è valorizzare il risultato finale. Certo oggi non posso dire di essere riuscita totalmente in questo cambiamento, perché il processo è lungo e profondo, ma forse più soddisfacente.
Cosa vuol dire prendere in mano il timone di un’azienda familiare?
Impegno, dedizione, sacrificio, passione, sconfitte, crisi esistenziali, coraggio di sbagliare, caparbietà.
Ci dici 3 cose che hai appreso nel tuo viaggio imprenditoriale che potrebbero essere d’ispirazione anche per la guida del nostro Bel Paese?
Credo che il tutto si riassuma con il fatto che noi italiani siamo persone passionali, troviamo sempre la via d’uscita, siamo creativi, innovativi e competenti. Amiamo il bello e lo diffondiamo, riuscendo a trovare le risorse anche quando non ci sono o non sapevamo di averle. Il rovescio della medaglia però è il fatto che dobbiamo imparare a governare la nostra passione incanalando le competenze attraverso maggiore rigore e disciplina oltre che imparare a valorizzare e a salvaguardare i nostri valori con estremo rispetto per le diversità. Ecco questo è quello che ho imparato nel mio viaggio ed è ciò che sto cercando di mettere nella mia impresa.
Quali sono, oggi in Italia, gli elementi chiave nell’eccellenza del saper fare impresa?
Avere risorse adeguate, sia umane che finanziarie. Essere capaci di gestirle con intelligenza e quindi motivazione, avere un’adeguata propensione al rischio ma anche la capacità e il coraggio di andare verso il cambiamento.
photo: il nuovo lavapavimenti Moppy – azienda Polti
Mi sembra di capire che le risorse finanziarie rappresentino proprio quei mulini a vento di Don Chisciotte. Com’è in generale il rapporto tra imprese e banche?
Dal mio punto di vista non è un rapporto adeguato né tantomeno equilibrato. So che forse sarò dura, tuttavia mi sento di dire che oggi la maggior parte delle banche non fa più il proprio lavoro o d’altro canto, ma non ho le giuste competenze per dirlo, non è messa nelle condizioni di esercitarlo adeguatamente. Quello che penso, da imprenditore, è che il sistema bancario dovrebbe supportare la crescita investendo nelle aziende che hanno bisogno delle risorse non in quelle che le hanno già. Prima investivano in maniera disinvolta, poi, a un certo punto, hanno smesso proprio di investire. Questo è un peccato perché, come dicevo prima, noi italiani abbiamo una capacità creativa che va oltre il saper inventare, ma che si esplicita nella capacità di saper creare soluzione. D’altro canto, senza volermi ripetere, dovremmo divenire più metodici nel perseguire l’obiettivo e, cosa non meno importante, imparare a dare riscontro strada facendo. In Italia sembra cosa proibita dare quello che altrove si chiama feedback. Per noi, in azienda, questo aspetto è stato un elemento chiave nella formazione, imparare a dire al diretto interessato cosa funziona o cosa potrebbe funzionare meglio. Penso che in un Paese come il nostro, nel quale diamo così importanza alle relazioni, non si possa non dare valore del riscontro che è fattore essenziale della crescita e del cambiamento. Quindi, potremmo iniziare a focalizzarci invece che sulle cose che non funzionano su come farle funzionare. Nella mia esperienza quotidiana, sia essa personale che professionale, cerco di ispirarmi all’esortazione di Gandhi quando dice “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Invece di aspettarmi che siano gli altri a modificarsi, cerco di agire per prima quello stesso cambiamento.
A proposito di cambiamento. Cosa vuol dire oggi essere imprenditore donna? Difficoltà e opportunità?
Difficoltà come tutte le donne che lavorano e che devono allo stesso tempo conciliare impegni familiari, siano essi figli o genitori anziani o altro ancora. Opportunità perché il mondo ha bisogno di più donne in posizione decisionali e di guida. Non perché siamo più brave ma perché un giusto equilibrio porta ad un migliore confronto e a un mondo migliore. Non è un caso che alcuni studi dimostrino come l’inserimento delle donne nei vertici aziendali faciliti il confronto e in conseguenza crei visioni differenti che qualificano l’azienda stessa. Poi, partiamo dal presupposto che io sostengo le diversità in generale, non solo tra uomo e donna ma anche ad esempio nelle differenze di età, di religione, di politica o anche di paese. Le diversità aiutano tantissimo a crescere. Certo vanno gestite, vanno integrate ma soprattutto vanno rispettate. Ciò che è diverso spaventa. Ad esempio anche una donna alla guida, visto che è una rarità, può spaventare. Nella mia esperienza, penso di poter dire, con un buon grado di certezza, che alcune persone non sono venute a lavorare con me perché io stessa sono donna. Bisogna avere coraggio per accettare la diversità perché vuol dire mettersi in gioco e uscire dalla propria comfort zone. Questo a livello generale. Poi, pur valorizzando la diversità, io non sostengo un mondo tutto al femminile. Quindi tanto mi spaventa un board aziendale in cui ci sono solo uomini, così mi allerta anche il contrario. Faccio un esempio. Pochi giorni fa durante una nostra presentazione interna mi sono resa conto che eravamo tutte donne e per giunta d’accordo. Mi sono detta “qui c’è qualcosa che non va, dobbiamo chiamare anche degli uomini.” Così è stato, perché il rischio era di chiudersi nella nostra sola visione femminile. Per me l’obiettivo era arrivare a una decisione partecipata e che quindi funzionasse per i differenti attori dell’azienda, non solo per le donne.
Nel ruolo di guida, quale dal tuo punto di vista, è la differente abilità che la donna può mettere in campo?
Reputo che abbia una naturale vocazione all’ascolto e che si lasci più campi di esplorazione. Mentre l’uomo è più concreto, attitudine che gli consente di arrivare al punto in modalità più diretta e lineare. Inoltre, noi prediligiamo lavorare in team perché non abbiamo la necessità di emergere. Ma c’è sempre l’eccezione in entrambi i casi. Quindi, mentre l’uomo lo vedo concreto, la donna, dal mio punto di vista, è pratica. Sembra la stessa cosa, ma non lo è, c’è proprio una sfumatura di stile nella modalità in cui si arriva all’obiettivo. L’uomo tende a lavorare più sulla quantità, mentre la donna propende per la qualità. Nessuna delle due modalità è sbagliata, entrambe sono funzionali.
Quindi, potremmo dire che in un sistema professionale e imprenditoriale in cui la flessibilità sembra non essere più una risorsa ma un fatto, la donna abbia l’attitudine ad una maggiore capacità di rendersi flessibile nel contesto in cui agisce.
È proprio così e forse è per questo motivo che nella società, oggi più di prima, il femminile sia un tema molto caldo. La donna sembra avere abilità più adeguate proprio laddove il contesto sia particolarmente mutevole, anche se la realtà, non solo lavorativa, ci restituisce tutt’ora una fotografia della società in cui si fa fatica a rispettare e a far rispettare tale valore femminile. Poi certo, perché si produca cambiamento è necessario partire da una differente educazione al dialogo uomo-donna. Ad esempio recentemente in un mio viaggio mi è capitato di assistere sull’aereo a una situazione veramente spiacevole, in cui un gruppo di tifosi ha iniziato a importunare in maniera molto inappropriata un team di ragazzine diciottenni di hockey, le quali, evidentemente imbarazzate, non reagivano. Non so se ero più irritata, per non dire altro, con i tifosi o con gli altri uomini presenti che non intervenivano, al punto da esplicitare apertamente agli stessi il mio dissenso a quell’immobilismo generale. Quando siamo atterrati non ho resistito, ho avvicinato uno dei tifosi e gli ho detto “ma tu ce l’hai una figlia, ce l’hai una sorella? E tu la tratteresti in questo modo?”. Poi sono andata da una delle giocatrici spiegandole che l’uomo non dovrebbe mai comportarsi come quei tifosi che trattano la donna come un oggetto offendendola e che è importante che in quei casi si impari a reagire non subendo comportamenti così tanto offensivi. Mi rendo conto che l’evoluzione da sostenere è molto più profonda di quello che immaginiamo, parte proprio dall’educazione culturale che vede uomo e donna attualmente chiusi nei propri stereotipi anacronistici.
Potremmo quindi parlare di reciproca educazione? Ovvero un sistema, prima di tutto familiare, che educa il bambino a rispettare la bambina ma allo stesso tempo che educa quest’ultima alla valorizzazione di se stessa nella relazione con l’altro sesso?
È questo il dialogo della differenza di cui parlavo prima. Il cambiamento non si agisce solo in una direzione, ma deve avvenire su entrambi i fronti. Io ho una bambina e un bambino, quindi lo vivo quotidianamente nel confronto. Quando mia figlia domanda a mio marito “papà sono bella?”, e ammetto che mia figlia è proprio bellina e che i media, a partire dai cartoni animati, suggeriscano in continuazione alle bambine che ‘devono’ essere belle, mio marito risponde “tu sei intelligente e forte”. Cerca di spostare l’attenzione del suo valore per non educarla ai soliti cliché. Noi, come genitori, ci impegniamo affinché entrambi abbiano le stesse identiche opportunità, pur mantenendo delle differenze di percorso, lei è libera di giocare alle bambole e di fare surf e skateboard, come lo è suo fratello; ma di certo non viene relegata ad aiutare la mamma a fare i mestieri di casa, come oggi, in alcuni contesti familiari, purtroppo ancora succede, mentre il bambino gioca alla playstation. Le pari opportunità anche nei doveri familiari.
Torniamo su Polti. Cosa c’è nell’immediato futuro dell’azienda?
Per il 2018 abbiamo tante sorprese in serbo per i nostri clienti. È un anno molto speciale, visto che coincide con il nostro quarantesimo anniversario, ma non posso ancora svelare niente. Quello che posso anticipare è che l’anno scorso abbiamo lanciato Moppy, la mascotte del Pulito. Un lavapavimenti senza cavo che con la forza del vapore rimuove ed elimina il 99.9% di germi e batteri. È una scommessa, è prodotto in Italia ed è il risultato di anni di ricerca e sviluppo. L’obiettivo ambizioso è quello di creare un nuovo mercato.
photo: un dettaglio della mascotte del Pulito Moppy – azienda Polti
Qual è il mercato che mirate a creare con questo prodotto?
Mi sembra ovvio, il mercato del Moppy. Mio papà ha creato quello del Vaporella al punto che il brand è divenuto un sinonimo di una categoria merceologica, così come Vaporetto nei pulitori a vapore. Diciamo che oggi il Moppy potrebbe essere la rivoluzione della pulizia, forse un Mocio 3.0, un lavapavimenti senza cavo ma con l’efficacia del vapore.
Quindi mi stai dicendo che l’obiettivo è creare il mercato dei moppers?
Ecco i moppers saranno coloro che utilizzeranno il Moppy. Il nome stesso è volutamente giocoso perché vuole facilitarne la riconoscibilità sul mercato. Ci sta dando delle belle soddisfazioni e, anche se non abbiamo le potenzialità comunicative che potrebbero avere altri, ci stiamo difendendo molto bene. Si sta creando un fenomeno di passaparola tale per cui chi compra il Moppy poi lo regala alla mamma oppure lo consiglia all’amica. Insomma mi emoziona sempre scoprire come sia il consumatore stesso a sostenere il nostro valore sul mercato. Basti pensare che il prodotto è stato presentato ufficialmente a settembre ed è già distribuito su tutto il territorio italiano oltre che sul mercato internazionale nei paesi in cui sono presenti le nostre filiali. Poi a dire di mio papà se l’anno prossimo non produrremo almeno un milione di pezzi è grave, ma io ho ridimensionato le aspettative e punto più pragmaticamente ad un centinaio di migliaia di pezzi. Sarebbe un buon risultato. Come lo è il fatto che ancora oggi siamo leader sia in alcuni settori dello stiro che della pulizia a vapore.
Commentando su Facebook la tua vittoria, hai dichiarato che non ti sentiresti in grado di guidare il Paese ma che ti sono venute in mente molte idee. Ce ne vuoi svelare qualcuna?
Non posso, altrimenti mi brucio la possibilità un giorno di candidarmi per davvero. Ovviamente sto scherzando, non potrei fare un passo del genere perché non ho studiato per fare politica e credo che le competenze specifiche siano importanti, tanto quanto quelle trasversali. Più che altro ho fantasticato con i miei amici, i miei collaboratori, la mia famiglia. Mi sono accorta che sono circondata da tante persone in gamba con cui potrei costruire un team eccezionale. Per quanto riguarda le idee erano soprattutto di tipo economico, ad esempio aiuti alle aziende come la nostra, che spingono per dare valore all’eccellenza e investono in Italia ma che non sono supportate dal sistema politico e di Governo.
A tal proposito, cosa concretamente potrebbe fare di diverso il Governo per sostenere l’imprenditoria italiana?
Parlando per mia esperienza, credo che ci siano tre principali aree. La prima è relativa alle risorse umane nelle quali le imprese devono avere la possibilità di investire, magari grazie a interventi sulla struttura del costo. Qualcosa nel recente passato si è fatto in tal senso, ma poco e non così significativo. La seconda è sugli investimenti. Torniamo al discorso di prima, ovvero facilitare le banche nel loro lavoro, il che si può tradurre nel favorire gli investimenti nelle imprese con specifiche agevolazioni. La terza in particolar modo riguarda aziende come la nostra che non rientrano nelle PMI ma che non sono neanche una grande impresa al pari di una multinazionale, e quindi non può usufruire di tutta una serie di incentivi che vengono concessi alle piccole e medie realtà del territorio. Insomma, ci troviamo in un limbo che non ci permette di crescere adeguatamente. Forse si dovrebbe delegare di più al territorio o forse basterebbe investire su chi consolida, premiando chi non molla non solo chi inventa o innova tanto per innovare. Magari molto più semplicemente, si potrebbe iniziare a chiedere agli imprenditori che ci sono già, di cosa le imprese hanno veramente bisogno. E come vedi, torniamo al feedback dell’inizio.