la stanza dei cinici

Il meteorismo comunicativo

CHARLIE'S SUGGESTION

Sembra che il virus comunicativo dell’unicità, così romantico nella sua vocazione ma altrettanto banale nella sua applicazione (ladro di comunicazione), abbia scoperto il proprio contraltare nello stupismo della provocazione. Così senza aver trovato ancora rimedio al primo, ovvero l’unicismo, che con il suo pensiero unico dell’unicità ha contagiato di buonismo brand e identità, sembra ritornare ancor più prepotente un altro fenomeno comunicativo che del clamore e dell’ostentazione fa la propria vocazione. Del resto lo diceva, sebbene con altri presupposti, anche Oscar Wilde “purché se ne parli” e allora abbiamo deciso, fuori dal coro, di parlarne anche noi. Perché, terminato l’immediato fenomeno di ‘machismo comunicativo’ che produce un gran chiacchierare, rimane una domanda: dov’è la strategia? Uno per tutti? Come dimenticare il più significativo e altrettanto controverso caso di ‘buondismo’ che ha visto salire alla ribalta mediatica la golosa merendina? Passato, ormai da tempo, l’effetto di una comunicazione ad effetto che lascia l’effetto che trova, noi b_linkisti siamo voluti tornare sulla scena per comprenderne l’avvincente esecuzione, giusto per riflettere se si possa definire, a distanza di mesi, concretamente una strategia di intelligente riposizionamento o più semplicemente uno stratagemma di frettoloso stordimento. E se così fosse, allora potremmo trovarci dinanzi ad una manifestazione che poco ha che fare con una comunicazione da molti acclamata come geniale, ma che piuttosto produce nei fatti quello che, con un po’ di ironia, abbiamo definito un fenomeno comunicativo di spiacevole ‘meteorismo’. Credo che la metafora renda da sé l’opinione. Ma, al di là delle risate che può suscitare, giusto per rimanere in tema di provocazione, la sottoscritta (Cristiana Giacchetti) ha voluto ripercorrere, in collaborazione con l’altra anima b_linkista, Cristina Vaudagna, il processo di una campagna, quella del Buondì per l’appunto, immaginandone la costruzione, con la finalità non di fare una tardiva caccia alle streghe, ma di riflettere sugli attuali fenomeni di branding communication, la cui ingombranza rischia di oscurare, più che illuminare, l’identità di brand. E quindi diamo il via alla simulazione della strategia.

 

È proprio il caso di dire Cristina che il buondismo ha fatto più vittime del buonismo.

Direi di sì Cristiana perché a conti fatti se i buonismi dei padri ricadranno sui figli, non si può negare che il buondismo ha meteorizzato un’intera famiglia in un colpo solo.

Per chi se lo fosse perso, ma la vedo dura, ripercorriamo il fatto. Una bambina, dalla simpatia travolgente, appare nel giardino di famiglia esortando la mamma a darle una colazione che coniughi la sua voglia di leggerezza e golosità. E la mamma, con una certa levità, risponde “non esiste una colazione così cara, possa un asteroide colpirmi se esiste”. E boom, un meteorite che in quel momento stava passando di lì per caso le cade sopra. Ma come se non bastasse stessa sorte tocca anche al papà il quale, non chiedendosi come mai ci sia un cratere nel suo giardino, domanda alla figlia dove sia la mamma. La bambina cerca di spiegare al papà che la donna è stata meteorizzata perché non voleva credere che esistesse una merendina che univa golosità e leggerezza, ma lui fornisce incautamente alla bambina la medesima frettolosa risposta “ma lo so anch’io che non esiste una colazione così, possa un asteroide un po’ più infuocato di questo colpirmi se…”. E ancor prima che l’uomo possa concludere la frase, arriva a zittirlo un nuovo meteorite che si trova a passare, per la seconda volta, proprio sopra il giardino della famiglia in via di estinzione. Verrebbe da dire: che sfiga. Ma sappiamo che, se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo. E al terzo episodio della saga, stessa sorte tocca al povero postino che, essendosi scordato di suonare tre volte, viene anch’egli meteorizzato ma questa volta da un Buondì, la cui caduta viene acclamata con urla di gioia dalla tenera bambina.

Ecco dunque che sorge spontanea la domanda, ovvero se la soluzione migliore per riposizionare lo storico brand Buondì fosse proprio la soluzione finale di meteorizzare madre e padre, incluso il postino.

Nell’immediato, e questo è innegabile, lo spot ha fatto parlare di sé, creando posizioni controverse che oscillavano da chi puntava il dito verso il brand, indignato dalla provocazione, a chi invece se la rideva acclamandolo come geniale. Ma c’è stato anche chi, in mezzo a tanto fermento, ne ha fatto una valutazione in termini di obiettivi, dichiarando che la Buondì sarebbe riuscita a mettere in atto un’operazione di riposizionamento strategico.

E infatti, se da una parte non ci lasciano perplessi gli effetti immediati di tanto clamore tipici della provocazione comunicativa, il cui tumulto virtuale, ad onor di cronaca, è stato gestito ad arte dall’azienda, dall’altra rimaniamo basiti dinanzi alla strategia. Perché dal nostro punto di osservazione ci chiediamo in cosa la provocazione del meteorite sostenga il posizionamento della Buondì, nonostante la spiegazione finale della campagna, un po’ tirata per i capelli, in cui gli zuccherini cadono sul prodotto sotto forma di pioggia di frammenti del precedente meteorite. 

Sembrerebbe che l’obiettivo dichiarato dal Gruppo Bauli fosse di rilanciare il brand superando gli stereotipi perfetti della famiglia ‘felice e vincente dal bian biscotto’ e recuperando al contempo il tradizionale linguaggio leggero dello storico Buondì.  Ma credo che, seguendo quest’ottica, l’obiettivo  sia stato confuso nella messa in scena con lo strumento, vale a dire l’ironia provocatoria, e il suo conseguente effetto, ovvero il “purché se ne parli” e il derivato dilagante dello “stupire a tutti i costi”.

Qua un distinguo è d’obbligo, perché c’è stato anche chi dello stupire a tutti i costi ha fatto la propria cifra stilistica, come ad esempio Oliviero Toscani, la cui provocazione era però funzionale ai marchi che volevano provocare, per l’appunto, una riflessione rispetto ai pregiudizi e ai luoghi comuni all’interno dei quali si collocava il posizionamento dei brand.

Un altro caso è il “be stupid” di Renzo Rosso, che ribalta il senso comune di stupidità per ricollocarlo provocatoriamente in un’accezione di anticonformismo, coerente tra l’altro con la proposizione di mercato di Diesel.

Nei due casi citati lo stupire non è solo funzionale all’obiettivo, ma sostiene anche il posizionamento strategico del brand, perché è coerente con la sua stessa natura e quindi credibile.

Quando invece l’effetto diventa l’obiettivo, il rischio è che il messaggio prenda il sopravvento generando effetti indesiderati, come disgregare, piuttosto che sostenere, la natura del marchio. E a tal proposito, qual è il posizionamento che Buondì ha ottenuto, al di là di aver fatto parlare di sé ed essere stata definita da alcuni una campagna geniale?

Più che di posizionamento parlerei di fenomeno, perché credo che, data anche la metafora impiegata nella campagna, nessuno se ne avrà a male, se lo definiamo “fenomeno meteorismo”: passa velocemente e lascia anche un cattivo odore.    

Per non perderci nelle risate, apriamo le finestre e riflettiamo sul processo di costruzione comunicativa.

Facciamo il gioco delle sedie?

Come rifiutarsi. Mi siedo al posto del creativo che desideroso di portarsi a casa il risultato, ovvero il commitment, e come non comprenderlo, adopera tutte le armi della seduzione per compiacere il cliente, incluso qualche escamotage di ‘machismo comunicativo’.

Quindi fai vedere subito i muscoli?

Certo, utilizzo la provocazione che nell’immediato sortisce sempre l’effetto del gradimento. Perché credo di non essere incauta dicendo che, nel gioco dei grandi numeri, siano stati più uomini a proclamare la campagna come geniale, mentre un numero più nutrito di donne l’abbiano definita inopportuna. Quindi, magari sbaglierò, ma credo, con un certo grado di verosimiglianza, di poter affermare che in questo momento il commitment seduto davanti a me sia rappresentato in prevalenza dall’universo maschile che sta valutando la mia capacità di fare un ‘sollevamento comunicativo’ che faccia clamore.

Ed ecco arrivare la famosa frase che manda in brodo di giuggiole anche il creativo più umile “la sua idea ci piace. La sua idea è geniale.” È quindi evidente che il piacere personale rischia di guidare il processo decisionale offuscando l’obiettivo.

E già, perché spesso nella costruzione della branding communication, o più specificatamente nella definizione di una campagna pubblicitaria, il barometro del gradimento risulta essere tendenzialmente il Sé con i propri gusti e più difficilmente si prende in considerazione l’adeguatezza del messaggio al posizionamento dell’azienda e, in conseguenza, la funzionalità dello stesso a sintonizzarsi con il contesto cui si riferisce. Un po’ come dire che la mia esperienza fa da riferimento al piacere universale.

photo credits:  Aggressivity

Vogliamo fare un paio di altri esempi al contrario, giusto per non essere accusate di femminismo?

Non ci perdiamo allora per strada l’eclatante caso del Fertility Day, cui seguirono giustificazioni pubbliche della ministra, licenziamento istantaneo dei creativi e ritiro immediato della campagna, solo perché la stessa idea comunicativa era stata costruita a misura d’esperienza del commitment, ovvero la ministra della salute Beatrice Lorenzin, senza calare probabilmente la campagna nel contesto femminile che in merito avrebbe avuto altro da dire.

E infatti la sommossa virtual-popolare ne è una conferma. Rimanendo in tema, non possiamo dimenticare invece la campagna natalizia di Pandora che ha rispolverato vecchi stereotipi femminili, svilendoli tra l’altro, per fare da contraltare ai più seducenti gioielli o lo scivolone mediatico di Carpisa, con evidente mancanza di sensibilità in tema di disoccupazione giovanile.     

Ma non spariamo sulla croce rossa e riprendiamo la via maestra del buondismo, anche perché qualcuno potrebbe dirci che questi sono esempi fallimentari, sebbene alcuni abbiano comunque dichiarato: “strategia riuscita: hanno fatto parlare di sé”. Tuttavia ci servivano per mettere a fuoco la pericolosità dello ‘ionismo’, in cui l’IO prevale nei processi decisionali di branding communication.

Del resto, non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.

Sì, ma che piace all’altro.

E, in questo caso, chi è l’altro? Ovvero chi fa la spesa e compra le merendine Buondì?

La mamma! Pur non essendo io un riferimento plausibile, in quanto non madre, qualche domanda me la sono fatta. Quindi ora mi vedo comodamente seduta sul divano di casa mia, pronta a gustarmi una piacevole serata con marito e prole immaginaria, mentre parte la pubblicità che da lì a breve mi vedrà meteorizzata tra le risate incontenibili di mio marito e dei miei figli.

Chissà se anche la mamma ride?

In questo momento mi sta montando la carogna.

Qualcuno potrebbe accusarti di non aver senso dell’ironia. Anche se, da mamma quale sono, l’idea di essere meteorizzata non desta in me un grande trasporto ed entusiasmo nell’acquistare poi il Buondì per mio figlio che, in caso contrario, potrebbe attendersi che piova un meteorite per risolvere il problema.  

Siamo quindi riuscite a dare una collocazione di senso al ‘fenomeno del meteorismo’. Perché tolte le risate iniziali e il clamore per l’irriverenza da alcuni proclamata geniale, rimane probabilmente lo sdegno, se non addirittura il disprezzo, della principale acquirente, la mamma, che guarda caso per alcuni potrebbe pure mancare di ironia verso la sua possibile meteorizzazione.

 

photo credits: techeconomy.it

Quindi, da una parte ci sarebbe da riflettere rispetto al modello rappresentazionale nel quale si lascia intendere ai bambini che, per ottenere ciò che si vuole, basta meteorizzare tua madre e poi, per par condicio familiare, anche tuo padre, auspicando di far ridere la mamma per la comune sorte.

E dall’altra sono da valutare le ricadute della campagna sulla relazione quotidiana madre-figlio. Perché alla richiesta del mio adorato bambino di avere un Buondì probabilmente dirò “no”, inimicandomelo e rischiando pure che il ragazzo inizi a praticare, fraintendendo il senso dello spot, una ‘danza asteroidale‘ in giardino, per ottenere ciò che non gli faccio avere.

Non è che stiamo esagerando nell’interpretazione? 

Diciamo che piuttosto stiamo paradossando l’interpretazione del paradosso utilizzato, che, come  in questo caso, è un rischio che si corre quando si va a colpire in maniera così diretta la morale del tuo potenziale acquirente. Perché, sebbene non ci sia l’intenzione di fare del sano moralismo, è alla morale dell’altro che ci rivolgiamo quando comunichiamo.

Pertanto ben venga sdoganare l’esasperata perfezione familiare e l’utilizzo dell’ironia anche paradossale, purché il suo utilizzo sia funzionale a creare sintonia e non ad alzare una barriera comunicativa. 

E infatti l’operazione Buondì sembra aver funzionato più nel contesto di contorno che non nel contesto di riferimento. Per questo più che di strategia di riposizionamento parlerei di tattica diversiva, perché al di là delle visualizzazioni da capogiro, della valanga di commenti iniziali, del palcoscenico di attenzione ottenuto nel primo periodo, a distanza di quattro mesi quante mamme hanno comprato lo storico Buondì incitate dalla metafora paradossale?

Mamma che tra l’altro da piccola faceva probabilmente colazione con il Buondì.

Non so tu, ma io lo mangiavo. Il cappuccino con il Buondì era un rito quotidiano.

Senza dubbio era nelle nostre cartelle. Io preferivo quello al cioccolato.

Dato per assodato che il Buondì rappresenta una tradizione per molti bambini oggi adulti, se a mia figlia rispondo che non esiste alcuna merendina in grado di coniugare golosità e leggerezza, sto affermando al contempo che il brand in questione non ha radicato alcuna memoria identitaria nella mia esperienza di consumatrice.

Ma credo che il punto sia soprattutto un altro. Ovvero che mentre il brand sia facilmente associabile ad una merendina gustosa, lo è altrettanto meno ad un cibo leggero.

Quindi delle due una, o lo era anche prima o non lo è adesso.

Possiamo immaginare che, al di là dello stile leggero e della relativa metafora paradossale impiegati nella campagna, rimanendo sul contenuto esplicito del messaggio “coniugare voglia di leggerezza e golosità“, ci sia stata la necessità di far evolvere lo storico posizionamento del prodotto all’interno di un’esigenza di mercato del cibo sano e naturale. 

Pertanto, per operare uno ‘svintaggiamento’ di prodotto dal suo ‘vintaggiamento’ temporale, da una parte è necessario ristrutturare la percezione della mamma, un tempo divoratrice del Buondì, e dall’altra far evolvere il marchio, senza snaturarlo, in un contesto che muta nelle sue esigenze alimentari. Purché non si faccia come alcuni avevano chiesto alla Nutella di togliere l’olio di palma dalla sua composizione, così che poi non sarebbe stata più Nutella.

Quindi come facciamo ad innovare la tradizione?

Se si vuole far evolvere la percezione del Buondì nella mente di chi ha avuto il piacere di provarlo, è necessario partire da quello che è il suo immaginario. Ad esempio io ho sempre definito il Buondì come la merenda ‘sofficiosa‘.

Sofficiosa? Quindi tu sei un’antesignana del frollino inzupposo di Banderas?

Può essere anche perché la sofficiosità esiste da prima dell’inzupposità. Come dicevo, io avevo una mia particolare procedura. Prima scavavo la glassa e la mangiavo da sola.

Invece la glassa io la lasciavo alla fine.

Poi procedevo con la seconda fase, ovvero immergevo la merendina in una tazza piena di latte fintanto che non si produceva l’effetto spugna, perché il prodotto era soffice e non si sfaldava. E allora, quando era ben imbevuto, lo mangiavo. Ovviamente la procedura veniva ripetuta più volte. Insomma era inzupposo per effetto della sua morbidezza, quindi sofficioso.

Possiamo dire che era un prodotto che si poteva mangiare in differenti modi.

Si potrebbe fare una call to action per chiedere ad altri nostri coetanei come mangiavano il Buondì. Chissà cosa verrebbe fuori.

Facciamo finta di aver fatto la call, come possiamo ravvivare l’immagine del brand nelle nostre menti, coniugando, come chiede la bambina, la golosità con la leggerezza? 

Magari potevamo continuare a giocare sullo storico doppio senso del suo peso specifico, visto che quando tenevi in mano la merendina era leggera. Se non ricordo male, c’era anche una pubblicità degli anni ’80 in cui il Buondì scappava dalla confezione tanto era leggero e il ragazzo lo riacciuffava al volo.

E qui ci torna utile nuovamente la sua sofficiosità.

È vero che somiglia ad una nuvola, ma credo che non basti a renderla una merendina leggera nella sua composizione perché comunque è paffuta come un panettone e glassosa come una brioches. Tutt’altro che leggera.

Quindi, se da una parte la mamma sulla golosità della merendina può non aver dubbi, magari qualche perplessità sulla sua leggerezza può avanzarla.

Quindi per esaltare la leggerezza del prodotto si è lavorato sulla macignosità del meteorite. Ma il punto è proprio questo, forse è la collocazione di leggerezza ad essere inadeguata a far evolvere il brand nell’ambito delle nuove esigenze alimentari.

Non è un caso, che dopo tanto clamore generato dal meteorite, ora la Buondì abbia presentato una nuova campagna per il lancio di un prodotto integrale che recita “Integrale sì, però è Buondì”: insomma la leggerezza senza rinunciare alla golosità. 

Forse ad aver la peggio sarà la golosità. Magari si sarebbero potute esplorare altre strade più affini al posizionamento tradizionale del prodotto che gli permettessero di innovare nell’attuale contesto. Come ad esempio l’essere nutriente.

Dipende da cosa si intende per nutriente. C’è da dire che i ragazzi stanno a scuola tante ore e il Buondì, essendo una merenda sfiziosa, potrebbe dare ai bambini un giusto contributo calorico.

E infatti, tornando sempre agli anni ’80, lo storico spot di prodotto recitava “Me lo merito, me lo merito io, Buondì Motta, Buondì mio”, proprio perché si puntava sulla nutrizione del prodotto per i giovani che svolgevano tante attività.

 

photo credits: Ciao.it

Certo, sarebbero da esplorare le preoccupazioni della mamma in merito agli attuali fenomeni alimentari. Perché, se la merendina è sfiziosa, la mamma è certa che il bambino la mangia, ma se non lo è, il bambino la lascia e non si nutre.

Quindi la golosità fa sì che, se una cosa è piacevole, il ragazzo la mangi anche in assenza del controllo. Mentre portando l’attenzione sugli aspetti di alimentazione nutriente si poteva puntare sul giusto apporto calorico e nutritivo.

A questo punto ci sarebbe stato bene un bel test di realtà sul percepito materno. Ma non potendo farlo, andiamo avanti per simulazione e supposizione.

Ok, quindi procedendo in questa direzione, mi viene da dire che il primo passo forse richiedeva una ristrutturazione del pensiero del commitment nell’ambito della richiesta, ovvero che Buondì dovesse collocarsi come merendina golosa e nutriente piuttosto che come soluzione golosa e leggera. Magari si sarebbe potuto indagare il percepito dell’azienda, che però non è più Motta bensì Bauli, giusto per revisionare dall’interno il differenziale di brand.

Già un passaggio essenziale questo per integrare innovazione e tradizione, ma in assenza dell’indagine sul campo, torniamo ad osservare la mamma, perché dal canto suo, ci potrebbe essere una resistenza verso le merendine industriali. Allora la scelta è diversa, perché il Buondì non se la giocherebbe con altre merendine confrontabili.

Mentre nel panorama delle soluzioni industriali, il brand se la poteva giocare sulla sfiziosità che nutre, standoci anche la rappresentazione della colazione lontana dai classici buonismi familiari. In questo caso la mamma o era già ingaggiata grazie alla sua esperienza pregressa, oppure la stessa esperienza andava ravvivata.

Io per il momento lavorerei sul primo livello, dove al massimo la mamma potrebbe aver paura di perdere la relazione con il figlio perché gli sta proponendo qualcosa che il bambino potrebbe percepire come vecchio. 

Quindi spostiamo l’attenzione sul ragazzo e sulla sua resistenza in merito al carattere di novità del Buondì che, in quanto merendina d’altri tempi, risulta essere poco attraente e seduttiva, al contrario della mamma che la reputa una merendina sfiziosa e piacevole oltre che nutriente.

Già perché per il piacere di opporsi alla mamma, la filastrocca quotidiana del bambino potrebbe essere “il Buondì? Ancora? Ma lo mangiavi tu, è vecchio, voglio qualcosa di nuovo!

Per ingaggiare il figlio e far in modo che sia lui a chiedere la merendina sfiziosa che nutre, si potrebbe lavorare sul divertissement di come mangiare il Buondì, utilizzando a questo punto l’ironia per rompere gli schemi della colazione perfetta. Quindi dopo vari tentativi rocamboleschi, ai limiti del paradosso e del surreale, di convincere il bambino, tipo gli alieni ‘buondiniani’ che arrivano dal lontano pianeta ‘buondismo’ alla ricerca del santo graal sofficioso, la mamma viene beccata, o meglio ancora si fa beccare, nel suo personale processo di mangiare il ‘sofficioso’, ad esempio come la mia particolare scomposizione della merendina, producendo nel bambino un’esperienza che ristruttura l’immagine del Buondì.

Invece di meteorizzare la mamma, abbiamo fatto sofficiare il bambino.

E se al contrario la mamma fosse una pentita buondista, lasciatasi influenzare dalle statistiche che evidenziano come i prodotti industriali alimentino l’obesità nei bambini, oppure dai trend che squalificano ciò che mangiava da piccola a vantaggio di alimenti più leggeri per le nuove generazioni?

In questo caso la paura di sbagliare è elevata e, nel dubbio, evito che mio figlio corra questo rischio, optando per merendine meno sfiziose ma più leggere, a costo di essere più controllante e quindi normativa.

Potremmo agire una paura più grande, come ad esempio il rischio che tuo figlio scompaia dietro l’ingombranza della cartella di scuola, non per effetto di un meteorite, ma come conseguenza di un inadeguato apporto calorico. In tal senso, per non rischiare di rendere la rappresentazione macabra e quindi distanziante, dovremmo lavorare su una sofisticazione della provocazione alla Toscani che rischierebbe al contrario di allontanarsi dal linguaggio ironico infantile.

Proviamo su un’altra strada, rimanendo sul processo.    

Potremmo spostarla sul rischio di privazione, che non è debilitazione.

Se la paura della mamma è di sbagliare per effetto dei trend, si può giocare sull’effetto vintage del Buondì.

Tutto ciò di cui stai privando tuo figlio togliendogli la sfiziosità ‘sofficiosa’ del Buondì.

Eccoci di nuovo alla riconquistata alleanza generazionale attraverso la riscoperta del piacere infantile, molto lontano tra l’altro dai modelli di perfezione familiare. 

Tecnicamente sì ma la ribalterei. Quindi prima è il bambino che viene beccato nel medesimo rituale della mamma, la quale è evidentemente contrariata, fintanto che si lascia contagiare dalla riscoperta del piacere della sfiziosa merendina, incluso il ricordo infantile dei ‘buondiniani’ in stile E.T. che, invece di chiamare casa, telefona Buondì. E a quel punto è il figlio che la coglie in flagranza di buondismo proprio mentre spiega ai buondiniani come mangiare il sofficioso.

Perché come puoi far rinunciare tuo figlio al piacere cui tu non hai mai rinunciato?

Del resto, il piacere della sofficiosità nutriente è da sempre Buondì. Come dire che il buondismo acquista un senso differente dal meteorismo.