la stanza dei cinici

Il fraintendimento del non intendimento

CHARLIE'S SUGGESTION

L’altro giorno incontro Tom per un aperitivo.

Breve antefatto su Tom. Lui è un mio amico di vecchia data, uno di quelli che ha sempre la parola giusta al momento sbagliato, non perché lo faccia apposta, ma proprio perché gli viene spontaneo.

Ebbene io di Tom non posso fare a meno, perché alla fine qualsiasi cosa dica ti fa riflettere. Fa l’imprenditore di una piccola azienda nata, come tante altre imprese, sull’onda dell’inutilità nel periodo AC (che non sta per avanti Cristo ma per ante crisi). Di fronte allo tsunami però lui non si è perso d’animo e nonostante tagli, licenziamenti e revisioni ha cercato, con una mia certa ammirazione, di trovare una soluzione pur non arrivando mai alla soluzione.

Ebbene quel giorno arriva all’aperitivo con un’espressione come se avesse avuto la rivelazione del quarto mistero di Fatima. Non aspetta neanche che gli chieda “come va?” che parte, in modalità jack russell all’inseguimento della volpe, nel suo racconto di quella che lui definisce “esperienza illuminante”.

Per oltre un’ora, senza interruzione di salivazione e di alcun apporto alcolico, mi racconta di aver capito cosa mancava alla sua azienda perché funzionasse. La parola magica era “felicità”.

Ovviamente quell’espressione cattura la mia attenzione. Non era di certo nell’indole di Tom parlare di felicità ma al massimo di numeri, programmazione e produttività. Insomma tutti termini e terminologie che abbiamo ereditato da quelli che il mitico Prof di Arezzo (alias Giorgio Nardone) definisce, nel suo libro ‘L’azienda vincente’, gli ‘idiots savants’, ovvero esperti di tecniche ma ingenui sui reali problemi economici. Mi suonava al quanto strano che finalmente lui e forse altri imprenditori stessero virando verso il porto della prosperità.

“Qualche giorno fa” mi racconta con entusiasmo Tom “ho incontrato un gruppo di consulenti, di quelli tosti, che propongono un servizio di analisi del livello di felicità dei dipendenti e poi sulla base di quanto emerge fanno un progetto di intervento per incrementarne il valore, con tanto di misurazione. Il risultato ipotizzato è fantastico: aumento della produttività, una diminuzione dei costi sociali e un miglioramento del brand aziendale!”

Il sangue mi si gela nelle vene e con un po’ di disappunto incalzo “quindi mi stai dicendo che da ora in avanti si potrà misurare numericamente la felicità! E che quindi, se il numero è una convenzione, riusciremo a rendere convenzionale anche la felicità? “

“Io non ho detto che la felicità sia un numero, anzi, loro ti spiegano che è un’abilità che può essere potenziata!”

“E quindi è un’abilità che può essere misurata. Questo vuol dire che il valore che gli viene attribuito sancisce che io sia abile o inabile a essere felice?”

Ma Tom non molla la presa e va avanti. “E’ per questo che loro ti propongono poi un intervento per aumentare la performance aziendale!”

A questo punto mi trasformo in un pitbull che non molla l’osso neanche davanti ad un orso “ma nel progetto di intervento ci sta anche il monitoraggio e la stimolazione dell’attività sessuale? No perché è risaputo: chi fa sesso è più felice!”

“Sei proprio un coglione.  In più questo gruppo di consulenti si appoggia a dei professori di università americane, il che determina l’infallibilità scientifica dell’intervento.”

“Se allora ci sono dietro fior fiore di scienziati, hai ragione, sono proprio un idiota a pensare che la felicità sia una relazione personale che ognuno di noi sviluppa con la realtà…voglio dire magari il mio 7 in felicità corrisponde al tuo 10. Non ti passa per la testa che non tutti siamo felici per le stesse cose e non nello stesso modo? Come lo negoziamo questo dis-valore? Facciamo la media della felicità organizzativa?”

Un lungo silenzio e poi un mugugno di Tom che tra i denti dice “Parli facile! Relazioni? Prova a svilupparle tu relazioni felici in ambienti infelici, come il mio!”

Boom. Uno a zero per Tom. Il pitbull molla l’osso e decide di arretrare a favore dell’orso.

Ci eravamo ormai del tutto fraintesi e nessun altro tentativo ci avrebbe fatto intendere sul senso che ognuno di noi stava dando alla felicità. Quindi, continuiamo a chiacchierare piacevolmente, ma poco amabilmente, su tutto ciò che non riguardasse la felicità, che in quel momento ci avrebbe sicuramente resi infelici. Tuttavia ‘l’effetto stimolatore Tom’ iniziava già a dare i suoi frutti. Mi ronzavano in testa dei pensieri, in primis l’indignazione che provavo, a cui non riuscivo a dare un senso. Cioè non capivo se fossi seccato per il fatto di non essere arrivato, come imprenditore, all’eldorado della felicità prima di Tom, oppure per la sconsiderata presunzione di un imprenditore, che era pure amico mio, di poter controllare il livello di felicità dei propri dipendenti per produrre e guadagnare di più, dicendo anche quanto si dovesse essere felici. Ma, del resto, come dargli torto. Se sei disperato e arriva un santone a darti la soluzione, tu cogli la palla al balzo. Ci sarà un motivo per cui esistono le sette e similari.

mucca

TP Quy Nhon Vietnam / unsplash

Mentre a casa continuavo a riflettere sui massimi sistemi della gioiosità, mi appare un’immagine inquietante nella mente. Imprese, aziende e organizzazioni che diventano una sorta di Wayward Pines. Non so se avete presente la serie televisiva americana in cui pochi eletti, a loro insaputa, vengono congelati per circa 2.000 anni e risvegliati nell’insolita cittadina di Wayward Pines? L’obiettivo è salvaguardare la sopravvivenza dell’umanità da quelle che sono chiamate evoluzioni aberranti che nel frattempo hanno distrutto il resto della civiltà umana. Il punto è che questi fortunati sciagurati, quando si risvegliano, non sanno neanche perché sono lì e viene nascosta loro la motivazione per evitare che la paura possa essere di ostacolo alla sopravvivenza di tutti, generando il caos. Ogni mattina, per le strade della città risuona una vocina che elenca gioiosamente le poche regole cui la popolazione deve attenersi “non provare ad andare via. Non parlare del passato. Non parlare della tua vita precedente. Rispondi sempre al telefono se squilla. Lavora sodo, sii felice. Goditi la vita a Wayward Pines.” Insomma, immaginavo proprio che, come nella ridente e sperduta cittadina americana, qualcuno si assumesse il diritto di farci sentire in dovere di essere felici, annientando tutto ciò che potesse essere di ostacolo tra noi e la felicità, affinché si potesse felicemente contribuire a far crescere la ‘città-organizzazione’.

Ma, quando pensavo di aver immaginato l’improbabile, ecco palesarsi su internet l’impossibile sotto forma di post su Linkedin “se riesci a convincere i tuoi dipendenti che sono profondamente coinvolti e centrali nella reinvenzione dell’azienda, puoi ottenere ingaggio, produttività e successo per entrambi.” Evito di soffermarmi sull’utilizzo della parola convincere che ha in sé la radice di vincere (vincere su chi? E quindi ne deduco che produttività e successo non sono per entrambi) piuttosto che sul senso di invenzione (come se l’azienda si inventasse più che costruisse), ma il punto centrale di quelle poche righe che sintetizzano la disastrosa serata con Tom è proprio che dalla robotica programmazione del tempo-obiettivo ci stiamo traghettando nell’era della stimolazione della gioia per produrre di più. Un po’ come dire che basta aumentare la luce per ottenere più latte dalle mucche! E se la lampadina si fulmina, cosa succede? Insomma se la giostra del convincimento non funziona di chi è la responsabilità? Del dipendente che ha frainteso oppure dell’imprenditore che non si è fatto intendere?

Forse la parola magica di cui parlava Tom non è felicità, ma integrazione. Mi cade l’occhio su un romanzo che avevo appena finito di leggere. Una storia vera. Negli anni ’70 in America ci fu un caso eclatante di un tizio, un certo Bill Millighan, che, nonostante avesse commesso efferati delitti documentati da prove certe, fu scagionato perché ritenuto innocente dei fatti avvenuti. Ebbene a discolpa di tali azioni, la sua mente fu dichiarata ‘una stanza piena di gente’, ovvero una personalità multipla, più che multipla, visto che nella sua psiche risiedevano ben 24 personalità, anzi 24 persone, come le definiva l’accusato, che non sapevano l’una dell’esistenza dell’altra. L’alibi dell’assoluzione fu quindi l’assenza d’integrazione delle tante personalità che abitavano la sua mente, ognuna con differenti abilità prodigiose, che però, non comunicando tra di loro, non potevano contribuire alla sanità della personalità centrale. Fu così avviato uno dei primi processi d’integrazione della personalità multipla.

E se Bill Millighan fosse proprio un’organizzazione, cosa succederebbe? Se quelle 24 personalità fossero gli attori di un’azienda, come potrebbero intendersi su qualcosa che non hanno contribuito a costruire e che quindi continuano a fraintendere?     

Forse cercando soluzioni standardizzate dall’esterno, si smarrisce l’obiettivo principe che è proprio quello di costruire la personalità aziendale. Si corre così il rischio di generare personalità multiple organizzative in cui alcuni vanno dove gli si dice di andare e altri invece non sanno neanche dove devono andare. E quella stanza, che sembra essere piena di gente, ricca quindi di differenze, contraddizioni ma abilità, si svuota di senso inseguendo modelli calati dall’alto che si alternano tra il divertissement del convincimento e la promessa di una duratura felicità.