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Il filosofo dell’outdoor

La storia che vi raccontiamo è quella di Luca Albrisi, amico di vecchia data di noi b_linkisti grazie alla sua storica adesione al progetto passionandpower. Oggi è free rider ed esperto di splitboard ma anche narratore del mondo outdoor. Ciò che ci ha colpiti da subito della sua storia è come lui abbia saputo revisionare la sua vita al punto da trasformare una delle sue passioni più grandi in opportunità professionali.

Infatti Luca, dopo aver capovolto la sua realtà, trasferendosi giovanissimo da Milano a vivere in montagna, secondo i principi della Deep Ecology, abbraccia l’importanza della sostenibilità ambientale nella pratica sportiva outdoor e sposa la filosofia della natura come facilitatore dell’arte del pensare.

Quale è stata la molla che ha fatto scattare in te la voglia di capovolgere la tua realtà e che obiettivi avevi quando sei partito per andare a vivere in montagna?                                                                                                                          

E’ stato davvero un grande cambiamento. Soprattutto se penso che attualmente vivo in una piccola frazione che in inverno conta appena 20 abitanti. Sin da piccolo ho avuto la fortuna di frequentare spesso la montagna grazie ai miei genitori che appena possibile mi portavano a sciare ma soprattutto grazie a mio nonno che, pur non essendo uno sciatore o un alpinista, mi ha trasmesso la sua grande passione per la natura e gli spazi incontaminati. Quindi, in fondo, credo che questo cambiamento di vita fosse già scritto nel mio DNA. Crescendo la città ha cominciato a starmi un po’ stretta, così ho seguito la mia voglia di andare in giro ed esplorare fino a quando quella di andar via è diventata una vera e propria necessità. Gli studi in Filosofia, non avendo frequenza obbligatoria, non mi hanno ostacolato quando ho deciso di trasferirmi. A quei tempi non avevo un obiettivo preciso, sapevo solo di voler praticare snowboard e diventare maestro di questa disciplina. Non immaginavo quante altre strade si sarebbero aperte una volta finito il corso: dalle stagioni invernali a Madonna di Campiglio alle esperienze di lavoro all’estero, in Francia e in California.

E quando nasce invece “Pillow Lab”?

Subito dopo la laurea in Filosofia, parallelamente al mio lavoro di maestro di snowboard, le esperienze lavorative nel mondo della comunicazione si sono modificate fino a quando nel 2012 ho fondato, insieme a due amici, la casa di produzione di contenuti video foto e testuali nonchè società di comunicazione “Pillow Lab” che oggi è ormai il mio principale lavoro. “Pillow Lab” è un progetto che mi ha permesso di mettermi di nuovo in gioco in un ambito diverso, creativo questa volta, ma comunque legato allo sport e alla natura visto che ci siamo specializzati nella narrazione legata al mondo outdoor. Così, dopo aver conseguito anche un master in questo ambito di studi, ho iniziato a occuparmi di raccontare le emozioni che la montagna e lo sport outdoor mi hanno regalato attraverso i linguaggi multimediali, arrivando a trasformare nuovamente la mia quotidianità. Lo snowboard è rimasta una delle attività centrali della mia vita che ormai pratico per il puro piacere “alpinistico” di questa disciplina. Per quanto riguarda l’insegnamento mi dedico solo a persone che mi contattano per vivere “piccole avventure” in snowboard e splitboard, non essendo più il mio lavoro principale. La sfida ora è farsi strada in questo mondo e, nonostante la concorrenza, “Pillow Lab” ha dalla sua parte il fatto di avere al suo interno persone che hanno vissuto in prima persona le emozioni, le difficoltà, la tecnica degli sport di cui raccontano. La competenza specifica che i miei soci e io abbiamo sviluppato sul campo ci permette di unire capacità narrative e competenze sportive, facendo di noi degli “storylivers” – ormai la parola “storyteller” trovo sia snaturata dall’abuso che ne viene fatto – e di avere un punto di vista privilegiato perchè ciò che narriamo l’abbiamo vissuto. Per poter raccontare certe storie bisogna viverle in prima persona e nello sport outdoor è facile per chi non conosce quel mondo lasciarsi trasportare solo dalla spettacolarità e perdere il contenuto profondo. La nostra vera sfida è quella di scavare e cercare di comunicare il lato più “unconventional” dell’outdoor.

 

So che partirai presto per girare un documentario.
 Che cosa bolle in pentola in “Pillow Lab”?

Si tratta di un progetto a cui tengo molto perché è un documentario con il quale andremo ad indagare un tema importante come la sostenibilità ambientale delle pratiche sportive outdoor. Dopo tanti progetti commissionati da clienti, questa volta, grazie ad alcuni finanziamenti del servizio aree protette del Trentino e di aziende sensibili al tema che collaborano con noi, finalmente torno ad occuparmi di un documentario di pura narrazione dal titolo “The Clean Approach”. Un’indagine sul rapporto uomo-natura che vuole affrontare il mondo dello sport outdoor, intendendolo come mezzo per avvicinarsi a una coscienza profonda del mondo naturale. Chi pratica certe discipline sportive, come arrampicata o snowboard free ride, cerca principalmente il contatto con la natura. La pratica delle attività oudoor con un approccio sostenibile per me rappresenta uno dei mezzi in grado di avvicinare l’uomo a una presa di coscienza di essere parte integrante della natura, uno dei principi fondamentali della Deep Ecology.

Che cos’è la Deep Ecology?

E’ una filosofia che ho approfondito anche nella mia tesi di laurea e che mi accompagna tutt’ora nella mia vita. La teoria dell’uomo al centro dell’universo viene sostituita da una visione più ampia che invita a percepirsi come parte integrante della natura e in questo modo, quasi automaticamente, facciamo scelte di vita che ci portano a rispettarla. Non si tratta di difendere e tutelare l’ambiente in cui viviamo per evitare che fra qualche secolo l’uomo si estingua, ma di capovolgere concretamente la prospettiva per sentirsi parte del contesto stesso. Non è un processo immediato, non facile come schioccare le dita, ma vedo con soddisfazione che questa filosofia inizia a essere largamente condivisa e le attività outdoor sono un facilitatore dell’arte del pensare, che permette di entrare in contatto con la nostra identità profonda.

Come può la natura essere un facilitatore dell’arte del pensare?

Per l’esperienza che ho vissuto, so che gli sport outdoor possono far avvicinare le persone alla loro parte più profonda e riflessiva, per riscoprire quel legame fortissimo che abbiamo con l’ambiente e la natura. Non basta la teoria. Io stesso quando ho iniziato a vivere davvero la montagna ho progressivamente cambiato il mio punto di vista rispetto a quando vivevo in città perché mi sono sentito fisicamente parte di quel mondo, nel bene e nel male. Quando passeggi in un bosco e sai di poter incontrare l’orso hai paura, ovviamente ti fa sentire in pericolo, ma allo stesso tempo se riconosci che quello è principalmente il suo habitat allora puoi percepire anche il tuo posto nel mondo in quanto uomo, la tua identità, e, perché no, anche aprirti alla costruzione di una convivenza possibile. Quando gli sport outdoor ti portano nella natura più viva, incontaminata, avverti più forte il legame con l’ambiante e te stesso. Di fronte ad alberi enormi, agli animali liberi nel loro contesto, ai maestosi ghiacciai ti rendi conto di quanto sei piccolo. Lo shock culturale è passare da una visione in cui l’uomo è la più grande creazione sulla Terra a riconcepirsi come qualcosa di piccolo ma al tempo stesso grande. Nasce un senso di appartenenza diverso, più viscerale. Non è la condizione dell’uomo, superiore a tutto, che capisce che deve proteggere la risorsa natura. Ma è sentirsi a casa. Reputo che questo saltus possa far nascere un ecologismo sostenibile, non quello che va di moda.

 

Hai da poco pubblicato il tuo primo libro, Splitboard, tra tecnica e filosofia Mulatero Editore, che ha come tema proprio la giovane disciplina dello splitboard che ha saputo rivoluzionare il mondo dello snowboard. Che cosa ha lo splitboard che ti affascina tanto?

Il libro vuole essere un manuale tecnico che però porta con sé tutta la responsabilità di essere un libro. Lo splitboard è uno sport emergente anche se fa il suo debutto negli anni Novanta. E’ una “sottocategoria” dello snowboard che ha la particolarità di utilizzare una tavola che può dividersi in due parti, che diventano all’occorrenza due “sci” utilizzabili in modo similare agli sci da scialpinismo. Questo ci permette, dunque, di muoverci facilmente in salita – cosa che una volta eravamo costretti a fare con le ciaspole ai piedi e la tavola sulla schiena – per poter raggiungere ed esplorare zone più remote dove poterci godere discese più a contatto con ambienti incontaminati. Questa tecnica solleva secondo me anche il discorso dell’addentrarsi nella natura e nel libro affronto questo tema “filosofico”. Infatti oltre a dare delle basi tecniche della disciplina, analizzo le modalità di chi si approccia, in diversi modi, allo splitboarding e suggerisco alcune pratiche green. E’ una scommessa, ma credo che lo splitboard sia un buon mezzo per avvicinarsi alla natura, in ottica deep ecology.

Che esperienza è stata la scrittura e quanto questo tuo progetto si inserisce nel tuo essere un “ecologo profondo”?

La scrittura è qualcosa che da sempre ha fatto parte di me. Ho sempre scritto un po’ di tutto e oggi con il mio lavoro posso dire di aver sperimentato davvero molti tipi di scrittura, declinata su diversi media, tanto che la ritengo la mia principale forma di espressione. Scrivere un libro è stata un’esperienza diversa da tutte le altre, sicuramente non facile. L’editore aveva come obiettivo quello di pubblicare il primo manuale al mondo di splitboard, da parte mia ho insistito per inserire anche dei capitoli che esplorassero la disciplina anche da un punto di vista “culturale” e di sostenibilità ambientale. Per quanto il libro si rivolga a persone interessate alla tecnica sono convinto si tratta comunque di soggetti che hanno scelto lo splitboarding per la sua capacità di avvicinarci a luoghi naturali e a contesti meno “commerciali”. Mi piace aver fatto nascere questa discussione sul perché un contenuto più “filosofico” potesse essere interessante affiancato alla tecnica, che da maestro ovviamente non potevo non affrontare con esaustività.

 

Photo: Alfredo Croce – © Pillow Lab.